“Il paguro” di Eugenio Montale è un componimento breve e tagliente, che parla della triste impossibilità umana d’incontrarsi: per dirla con altre parole il paguro, volta dopo volta s’infila in gusci che non sono i suoi, ma Montale non potrà mai entrare in un guscio che non sia il suo.
È così che, tra le righe dei “Diari” di Eugenio Montale, il paguro diventa metafora dell’amore e del limite.
Il senso de “Il paguro” e la raccolta
“Il paguro” appartiene ai “Diari 1971-1972” , raccolta che segna una delle fasi più tarde della poesia di Eugenio Montale, premio Nobel per la Letteratura nel 1975 e voce tra le più alte del Novecento. Questi testi, spesso brevi, nascono in anni di riflessione estrema, quando il poeta guarda al mondo e a se stesso con disincanto.
Non più la tensione simbolica degli esordi, ma un linguaggio scarno, quotidiano, che in poche righe concentra significati profondi. Nei “Diari”, Montale sembra voler fare i conti con le illusioni della vita e, soprattutto, con il tema della incomunicabilità .
“Il paguro” (1972) di Eugenio Montale
Il paguro non guarda per il sottile
se s’infila in un guscio che non è il suo.
Ma resta un eremita. Il mio male è
che se mi sfilo dal mio non posso entrare nel tuo.
Una metafora essenziale
A prima vista, la poesia sembra un gioco di immagini: un paguro, un guscio, un movimento da un rifugio all’altro. Ma, dietro questa scena naturale, si cela una riflessione profonda sulla solitudine dell’essere umano e sull’impossibilità di un’autentica fusione con l’altro.
Montale utilizza un’immagine umile, quotidiana – il paguro, piccolo crostaceo che vive dentro conchiglie altrui – per parlare di un tema universale: la condizione dell’io, che cerca riparo, l’identità, e, insieme, la relazione.
Il poeta riconosce in sé un “male” che non è malattia, ma coscienza: non si tratta di trovare un nuovo guscio, ma di sapere che, anche uscendo dal proprio, non si potrà mai abitare pienamente l’altro.
Questo componimento non è soltanto una parabola amorosa, ma un frammento di filosofia esistenziale. Nel suo passo rapido, che ricorda ancora l’ermetismo, Montale esprime il dramma della frattura che nessun sentimento riesce a suturare. È la voce di un uomo che, a ottant’anni, non coltiva più illusioni: ha visto orrori che hanno fatto la Storia… la guerra, la perdita, e sa che il dialogo assoluto è un’illusione. Ormai anche lui è come il paguro: un eremita costretto alla solitudine, che ama vivere in conchiglie vuote e non condivide amore, ma solo limite.
“Il paguro non guarda per il sottile”
Il primo verso della poesia ha un tono colloquiale tipico dei “Diari” di Montale.
L’autore prende un’immagine naturale e la carica di ironia: il paguro non si fa scrupoli, non bada ai dettagli, dice. Qui c’è già una prima distanza dall’umano: l’animale si adatta, prende ciò che trova e sopravvive. L’uomo, invece, vive di coscienza, e la coscienza è il suo tormento.
“Ma resta un eremita”
Il punto di svolta della poesia, quello che illumina il lettore, perché chi non conosce il paguro non sa cosa cosa accade. Anche nel guscio altrui, il paguro resta solo. Non basta cambiare dimora per trasformare la propria natura.
Qui si coglie la tensione montaleana: si può cercare l’altro, illudersi di confondersi, ma il nucleo dell’io resta irriducibile. È il marchio della sua poetica: dal male di vivere degli esordi al disincanto di questi versi, Montale continua a dire che la vita non concede armonie.
“Il mio male è / che se mi sfilo dal mio non posso entrare nel tuo.”
L’ultimo distico è confessione pura. Non c’è più la mediazione dell’immagine animale: il poeta parla di sé. “Il mio male” è il cuore della poesia: un’inadeguatezza insanabile. Anche nell’amore più intenso – e Montale conosce bene la passione, dalle figure di Clizia e Mosca fino alle presenze tardive – resta una distanza che nessuna intimità può abolire.
Uscire dal proprio guscio non basta: non esiste la fusione, ma solo il confronto di due solitudini. Questo verso è forse uno dei più limpidi autoritratti spirituali di Montale: uomo ironico, scettico, che rifugge le illusioni consolatorie. Dietro l’apparente semplicità zoologica, c’è la voce di chi ha passato la vita a interrogarsi sul senso, senza trovarlo se non nell’atto stesso di dirlo.
Eugenio Montale: il poeta del limite
Eugenio Montale (1896-1981) è stato una delle coscienze più lucide del Novecento. Nato a Genova, visse tra guerre, dittature e svolte culturali radicali. Poeta ermetico negli esordi, con “Ossi di seppia” (1925) impose una voce nuova, capace di fondere paesaggio e condizione esistenziale. Con il tempo, il suo stile si fece sempre più spoglio, ironico, fino alle raccolte tarde – come i “Diari” – dove la forma breve diventa il luogo di pensieri essenziali, a volte corrosivi.
Premio Nobel nel 1975, Montale è rimasto, fino all’ultimo, fedele a una visione tragica e disincantata: la vita come enigma, il linguaggio come unico strumento per abitarlo. “Il paguro” ne è la prova: quattro versi che contengono una filosofia intera.