Ho sceso, dandoti il braccio (1963) di Eugenio Montale, il vero amore si scopre quando si perde

10 Novembre 2025

Scopri la toccante dichiarazione d'amore che Montale dedica alla moglie Drusilla Tanzi grazie ai versi della poesia “Ho sceso, dandoti il braccio”.

Ho sceso, dandoti il braccio (1963) di Eugenio Montale, il vero amore si scopre quando si perde

Ho sceso, dandoti il braccio di Eugenio Montale è una poesia che celebra l’affetto per una persona importante che non c’è più. È una delle più toccanti dichiarazioni d’amore del novecento. Un dialogo in cui si percepisce l’assenza della compagna di una vita che purtroppo dopo una vita insieme è morta.

Quello di Montale è un modo per trasformare il dolore in memoria viva. È il tributo ad una donna che in vita non ha amato mai fino in fondo, ma che le è stato accanto malgrado le relazioni del poeta con altre donne.

Ho sceso, dandoti il braccio è stata scritta nel novembre 1967 e pubblicata il 20 dello stesso mese. È tratta dalla raccolta di poesie Satura di Eugenio Montale, pubblicata per la prima volta nel 1971. All’interno della raccolta la poesia fa parte della sezione Xenia II, un gruppo di quattordici componimenti che Montale dedica alla moglie Drusilla Tanzi, detta Mosca, scomparsa il 21 ottobre 1963.

Per la prima volta il poeta genovese parla di lei nei suoi versi, una confessione tardiva, intima e profondamente umana.

Leggiamo questa meravigliosa poesia di Eugenio Montale per scoprirne il significato.

Ho sceso, dandoti il braccio di Eugenio Montale

Ho sceso, dandoti il braccio, almeno un milione di scale
e ora che non ci sei è il vuoto ad ogni gradino.
Anche così è stato breve il nostro lungo viaggio.
Il mio dura tuttora, né più mi occorrono
le coincidenze, le prenotazioni,
le trappole, gli scorni di chi crede
che la realtà sia quella che si vede.

Ho sceso milioni di scale dandoti il braccio
non già perché con quattr’occhi forse si vede di più.
Con te le ho scese perché sapevo che di noi due
le sole vere pupille, sebbene tanto offuscate,
erano le tue.

L’inno d’amore alla compagna di una vita

Ho sceso, dandoti il braccio è una poesia di Eugenio Montale che possiamo considerare il più grande tributo del poeta alla moglie Drusilla Tanzi, chiamata affettuosamente “Mosca” dal poeta ligure per le spesse lenti da vista che ella portava a causa di una forte miopia.

La sua relazione con Drusilla Tanzi iniziò nel 1929, quando lui divenne ospite pagante nella casa che Drusilla condivideva con il marito, Matteo Marangoni. Nel 1939 i due iniziarono la convivenza ufficiale, che durò fino alla morte di lei nel 1963. Solo nel 1962, dopo più di trent’anni di vita insieme, decisero di sposarsi.

Eppure, la biografia di Montale mostra chiaramente come, durante tutto questo arco di tempo, altre donne abbiano rappresentato figure ispiratrici e affettive di grande importanza.

La prima Irma Brandeis, battezzata dal poeta con il nome di Clizia, conosciuta nel 1933. Irma fu la musa della poesia metafisica e salvifica degli anni Trenta (Le occasioni). La loro relazione (1933-1939) si sovrappose agli anni in cui Montale era già legato a Mosca, sebbene non ancora convivente.

L’altra donna che si ritrovo nel cammino di Drusilla Tanzi, fu Maria Luisa Spaziani, poetessa e traduttrice, chiamata da Montale con il nome di Volpe. Il poeta incontrò Volpe nel 1949, quando Montale aveva 53 anni e conviveva da dieci anni con Mosca. Fu una relazione intellettuale e sentimentale intensa, che ispirò i Madrigali privati ne La bufera e altro (1956).

Drusilla, dunque, non fu mai la musa ideale o la passione trascendente, ma la donna reale, concreta, silenziosa. Fu la presenza quotidiana che resistette a tutto, che accompagnò il poeta tra viaggi, difficoltà, depressioni, e che, proprio per questo, diventò alla fine il centro più autentico della sua poesia.

Dopo la sua morte, Montale le dedicò finalmente forse la poesia d’amore più intensa e nota. Un atto di riconoscenza, un dialogo con l’assenza, una confessione tardiva e definitiva.

Un amore che si rivela nell’assenza

Il tema iniziale di Ho sceso, dandoti il braccio è il vuoto. Montale sceglie di non descrivere la morte in modo diretto, ma preferisce evocarla attraverso il gesto umile e quotidiano di scendere le scale insieme.

Quel gesto, ripetuto milioni di volte, diventa metafora di un’intera vita condivisa. Ora che lei non c’è, ogni gradino è “vuoto”: la realtà resta, ma senza l’amore perde peso e significato.
Eppure, anche in questa consapevolezza dolorosa, il poeta riconosce che “è stato breve il nostro lungo viaggio”. Questo verso racchiude la nostalgia per l’eternità negata agli amori veri.

Le “coincidenze”, le “prenotazioni”, le “trappole” rappresentano tutto ciò che appartiene al mondo pratico, quello che Mosca gestiva con dedizione e ordine.

Ma nel linguaggio di Montale diventano simboli dell’illusione di chi crede che la vita sia solo ciò che si vede. Dopo la perdita, il poeta comprende che la realtà più autentica è invisibile, fatta di legami, di ricordi e di presenze interiori.

È un pensiero che segna la maturità filosofica dell’ultimo Montale: la realtà visibile è solo una delle sue ombre.

Lo sguardo dell’anima e l’ironia più dolce

La seconda strofa svela la rivelazione più profonda.

Montale confessa che non scendeva le scale dandole il braccio per aiutarla. Era lei che guidava lui.

Mosca, quasi cieca, possedeva uno sguardo più lucido e penetrante del suo. La sua “miopia” diventa un paradosso poetico: chi vede meno, in verità vede meglio, perché sa guardare oltre la superficie.

Le sue “pupille offuscate” erano le sole vere: simbolo di una visione spirituale e morale, che riesce ad andare oltre. In lei, Montale riconosce la capacità di cogliere la sostanza delle cose, di vedere con l’intelligenza del cuore, di capire ciò che non si può spiegare.

Pur parlando della morte, la poesia non cade mai nel patetico. C’è una leggerezza sottile, un’ironia discreta, che stempera la malinconia e la rende umana.

Montale parla con Mosca come se fosse ancora lì, in una conversazione familiare. È la cifra della sua ultima fase poetica: trasformare il dolore in lucidità, la nostalgia in conoscenza.

La celebrazione di un amore vero, non idealizzato

Ho sceso, dandoti il braccio è una poesia sull’amore che non idealizza, ma accetta la fragilità e la finitezza.

Non parla di un sentimento assoluto, ma di un legame che resiste alla stanchezza, al tempo, alle contraddizioni. È la celebrazione di un amore reale, quotidiano, imperfetto, quello che continua anche quando la vita finisce.

Attraverso Mosca, Eugenio Montale comprende che amare non significa possedere, ma condividere. Significa esserci, passo dopo passo, anche quando la vista si offusca, anche quando la presenza dell’altro diventa solo memoria. Perché la verità dell’amore non risiede nella passione o nella promessa di eternità, ma nell’attenzione silenziosa: quella di chi tende la mano, accompagna, si prende cura.

In Mosca, il poeta riconosce la parte più autentica di sé, quella che vede davvero. E attraverso lei scopre una lezione universale. Vedere non è guardare, ma saper scorgere l’invisibile, la sostanza del bene, la fedeltà, la continuità del sentimento anche nel vuoto.

In fondo, dice Eugenio Montale, l’amore vero non si misura nel tempo vissuto, ma nella profondità dello sguardo che resta. È ciò che sopravvive a tutto: alle assenze, ai silenzi, persino alla morte.

Perché quando un amore è stato vissuto fino in fondo, non finisce, ma si trasforma in visione.

 

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