Ci sono poeti che non raccontano il mondo com’è. Raccontano come viene sentito quando tutto si fa fragile. Giovanni Pascoli appartiene a questa stirpe rara.
Nato il 31 dicembre, in un giorno di passaggio tra ciò che finisce e ciò che ricomincia, ha costruito una poesia dell’ascolto. Una poesia fatta di attenzione, di tremore, di cose minime.
Nei suoi versi il dolore non viene esibito. Viene custodito. La natura non è uno sfondo. È una presenza viva. L’infanzia non è nostalgia. È una chiave per comprendere l’enigma dell’esistere.
Nel giorno del suo compleanno, rileggere Giovanni Pascoli significa tornare a una poesia che non cerca di imporsi. Cerca di restare.
Le poesie più belle e celebri di Giovanni Pascoli
Per celebrare il compleanno di Giovanni Pascoli, considerato insieme a Gabriele D’Annunzio il più importante poeta del Decadentismo italiano, abbiamo realizzato un’antologia che raccoglie alcune delle sue poesie più famose e amate. Versi che raccontano la centralità delle piccole cose, il dolore custodito, il rapporto profondo con la natura e lo sguardo infantile che attraversa tutta la sua poetica.
E s’aprono i fiori notturni,
nell’ora che penso ai miei cari.
Sono apparse in mezzo ai viburni
le farfalle crepuscolari.Da un pezzo si tacquero i gridi
là sola una casa bisbiglia.
Sotto l’ali dormono i nidi,
come gli occhi sotto le ciglia.Dai calici aperti si esala
l’odore di fragole rosse.
Splende un lume là nella sala.
Nasce l’erba sopra le fosse.Un’ape tardiva sussurra
trovando già prese le celle.
La Chioccetta per l’aia azzurra
va col suo pigolio di stelle.Per tutta la notte s’esala
l’odore che passa col vento.
Passa il lume su per la scala;
brilla al primo piano: s’è spento…è l’alba: si chiudono i petali
un poco gualciti; si cova,
dentro l’urna molle e segreta,
non so che felicità nuova.
2. La felicità
Quando, all’alba, dall’ombra s’affaccia,
discende le lucide scale
e vanisce; ecco, dietro la traccia
d’un fievole sibilo d’ale,io la inseguo per monti, per piani,
nel mare, nel cielo: già in cuore
io la vedo, già tendo le mani,
già tengo la gloria e l’amore…Ahi! ma solo al tramonto m’appare,
su l’orlo dell’ombra, lontano,
e mi sembra in silenzio accennare
lontano, lontano, lontano.La via fatta, il trascorso dolore
m’accenna col tacito dito:
improvvisa, con lieve stridore,
discende al silenzio infinito.
3. Il lampo
E cielo e terra si mostrò qual era:
la terra ansante, livida, in sussulto;
il cielo ingombro, tragico, disfatto:
bianca bianca nel tacito tumulto
una casa apparì sparì d’un tratto;
come un occhio, che, largo, esterrefatto,
s’aprì si chiuse, nella notte nera.
4. Sogno
Per un attimo fui nel mio villaggio,
nella mia casa. Nulla era mutato
Stanco tornavo, come da un vïaggio;
stanco, al mio padre, ai morti, ero tornato.Sentivo una gran gioia, una gran pena;
una dolcezza ed un’angoscia muta.
– Mamma?-È là che ti scalda un po’ di cena-
Povera mamma! e lei, non l’ho veduta.
5. Di lassù
La lodola perduta nell’aurora
si spazia, e di lassù canta alla villa,
che un fil di fumo qua e là vapora;di lassù largamente bruni farsi
i solchi mira quella sua pupilla
lontana, e i bianchi bovi a coppie sparsi.Qualche zolla nel campo umido e nero
luccica al sole, netta come specchio:
fa il villano mannelle in suo pensiero,
e il canto del cuculo ha nell’orecchio.
6. X agosto
San Lorenzo, io lo so perché tanto
di stelle per l’aria tranquilla
arde e cade, perché sì gran pianto
nel concavo cielo sfavilla.Ritornava una rondine al tetto:
l’uccisero: cadde tra spini:
ella aveva nel becco un insetto:
la cena de’ suoi rondinini.Ora è là, come in croce, che tende
quel verme a quel cielo lontano;
e il suo nido è nell’ombra, che attende,
che pigola sempre più piano.Anche un uomo tornava al suo nido:
l’uccisero: disse: Perdono;
e restò negli aperti occhi un grido:
portava due bambole in dono…Ora là, nella casa romita,
lo aspettano, aspettano in vano:
egli immobile, attonito, addita
le bambole al cielo lontano.E tu, Cielo, dall’alto dei mondi
sereni, infinito, immortale,
oh! d’un pianto di stelle lo inondi
quest’atomo opaco del Male!
7. La gatta
Era una gatta, assai trita, e non era
d’alcuno, e, vecchia, aveva un suo gattino.
Ora, una notte, (su per il camino
s’ingolfava e rombava la bufera)trassemi all’uscio il suon d’una preghiera,
e lei vidi e il suo figlio a lei vicino.
Mi spinse ella, in un dolce atto, il meschino
tra’ piedi; e sparve nella notte nera.Che notte nera, piena di dolore!
Pianti e singulti e risa pazze e tetri
urli portava dai deserti il vento.E la pioggia cadea, vasto fragore,
sferzando i muri e scoppiettando ai vetri.
Facea le fusa il piccolo, contento.
8. Maria
Ti splende su l’umile testa
la sera d’autunno, Maria!
Ti vedo sorridere mesta
tra i tocchi d’un’Avemaria:
sorride il tuo gracile viso;
né trova, il tuo dolce sorriso,
nessuno:
così, con quelli occhi che nuovi
si fissano in ciò che tu trovi
per via; che nessuno ti sa;
quelli occhi sì puri e sì grandi,
coi quali perdoni, e domandi
pietà:
quelli occhi sì grandi, sì buoni,
sì pii, che da quando li apristi,
ne diedero dolci perdoni!
ne sparsero lagrime tristi!
quelli occhi cui nulla mai diede
nessuno, cui nulla mai chiede
nessuno!
quelli occhi che toccano appena
le cose! due poveri a cena
dal ricco, ignorati dai più;
due umili in fondo alla mensa,
due ospiti a cui non si pensa
già più!
9. Il brivido
Mi scosse, e mi corse
le vene il ribrezzo.
Passata m’è forse
rasente, col rezzo
dell’ombra sua nera,
la morte. . .
Com’era?
Veduta vanita,
com’ombra di mosca:
ma ombra infinita,
di nuvola fosca
che tutto fa sera:
la morte. . .
Com’era?
Tremenda e veloce
come un uragano
che senza una voce
dilegua via vano:
silenzio e bufera:
la morte. . .
Com’era?
Chi vede lei, serra
nè apre più gli occhi.
Lo metton sotterra
che niuno lo tocchi,
gli chieda – Com’era?
rispondi. . .
com’era?
10. Addio!
Carissime sorelle, io parto io vado;
ma sento che il mio cuor vuol rimanere.
Rimanere egli vuol, nè mio malgrado;
non vuol venir, nè contro mio piacere.
Rimanga presso il vostro dolce amore,
rimanga presso voi, povero cuore!
io senza lui, povero cuore ardente,
andrò lontano disperatamente.Adorate fanciulle, andrò ben lunge
e non sarò felice, oh no! di certo:
dove la vostra voce a me non giunge,
ivi è la solitudine e il deserto.
Là dove non vi vedo e non vi sento
non ha prezzo per me l’oro e l’argento:
dove non odo le vostre parole
io non lo vedo, non lo vedo, il sole!Mie soavi bambine, oh! ricordate
questo fuggiasco, questo pellegrino!Pensate a lui felici e sventurate,
pensate a lui la sera ed il mattino:
quando il sol nasce, e quando se ne muore,
nei momenti del gaudio e del dolore.
Credete che nel nostro immenso affanno
i pensier nostri si rincontreranno.S’incontreranno sempre e si diranno
soavi cose per l’aërea via.
Quanta felicità v’augureranno
da parte della triste anima mia!
E voi? Ma i vostri voti io li so bene,
so le vostre preghiere alte e serene!
Voti e preghiere? Invano, invano, invano!!!
fin che, o fanciulle, io vi sarò lontano!
11. La mia sera
Il giorno fu pieno di lampi;
ma ora verranno le stelle,
le tacite stelle. Nei campi
c’è un breve gre gre di ranelle.
Le tremule foglie dei pioppi
trascorre una gioia leggiera.
Nel giorno, che lampi! che scoppi!
Che pace, la sera!Si devono aprire le stelle
nel cielo sì tenero e vivo.
Là, presso le allegre ranelle,
singhiozza monotono un rivo.
Di tutto quel cupo tumulto,
di tutta quell’aspra bufera,
non resta che un dolce singulto
nell’umida sera.È, quella infinita tempesta,
finita in un rivo canoro.
Dei fulmini fragili restano
cirri di porpora e d’oro.O stanco dolore, riposa!
La nube nel giorno più nera
fu quella che vedo più rosa
nell’ultima sera.Che voli di rondini intorno!
che gridi nell’aria serena!
La fame del povero giorno
prolunga la garrula cena.
La parte, sì piccola, i nidi
nel giorno non l’ebbero intera.
Nè io… e che voli, che gridi,
mia limpida sera!Don… Don… E mi dicono, Dormi!
mi cantano, Dormi! sussurrano,
Dormi! bisbigliano, Dormi!
là, voci di tenebra azzurra…
Mi sembrano canti di culla,
che fanno ch’io torni com’era…
sentivo mia madre… poi nulla…
sul far della sera.
12. Lavandare
Nel campo mezzo grigio e mezzo nero
resta un aratro senza buoi, che pare
dimenticato, tra il vapor leggero.E cadenzato dalla gora viene
lo sciabordare delle lavandare
con tonfi spessi e lunghe cantilene:Il vento soffia e nevica la frasca,
e tu non torni ancora al tuo paese!
quando partisti, come son rimasta!
come l’aratro in mezzo alla maggese.
13. L’aquilone
C’è qualcosa di nuovo oggi nel sole,
anzi d’antico: io vivo altrove, e sento
che sono intorno nate le viole.Son nate nella selva del convento
dei cappuccini, tra le morte foglie
che al ceppo delle quercie agita il vento.Si respira una dolce aria che scioglie
le dure zolle, e visita le chiese
di campagna, ch’erbose hanno le soglie:un’aria d’altro luogo e d’altro mese
e d’altra vita: un’aria celestina
che regga molte bianche ali sospese…sì, gli aquiloni! E’ questa una mattina
che non c’è scuola. Siamo usciti a schiera
tra le siepi di rovo e d’albaspina.Le siepi erano brulle, irte; ma c’era
d’autunno ancora qualche mazzo rosso
di bacche, e qualche fior di primaverabianco; e sui rami nudi il pettirosso
saltava, e la lucertola il capino
mostrava tra le foglie aspre del fosso.Or siamo fermi: abbiamo in faccia Urbino
ventoso: ognuno manda da una balza
la sua cometa per il ciel turchino.Ed ecco ondeggia, pencola, urta, sbalza,
risale, prende il vento; ecco pian piano
tra un lungo dei fanciulli urlo s’inalza.S’inalza; e ruba il filo dalla mano,
come un fiore che fugga su lo stelo
esile, e vada a rifiorir lontano.S’inalza; e i piedi trepidi e l’anelo
petto del bimbo e l’avida pupilla
e il viso e il cuore, porta tutto in cielo.Più su, più su: già come un punto brilla
lassù, lassù… Ma ecco una ventata
di sbieco, ecco uno strillo alto… – Chi strilla?Sono le voci della camerata mia:
le conosco tutte all’improvviso,
una dolce, una acuta, una velata…A uno a uno tutti vi ravviso,
o miei compagni! E te, sì, che abbandoni
su l’omero il pallor muto del viso.Sì: dissi sopra te l’orazioni,
e piansi: eppur, felice te che al vento
non vedesti cader che gli aquiloni!Tu eri tutto bianco, io mi rammento:
solo avevi del rosso nei ginocchi,
per quel nostro pregar sul pavimento.Oh! te felice che chiudesti gli occhi
persuaso, stringendoti sul cuore
il più caro dei tuoi cari balocchi!Oh! dolcemente, so ben io, si muore
la sua stringendo fanciullezza al petto,
come i candidi suoi pètali un fioreancora in boccia! O morto giovinetto,
anch’io presto verrò sotto le zolle
là dove dormi placido e soletto…Meglio venirci ansante, roseo, molle
di sudor, come dopo una gioconda
corsa di gara per salire un colle!Meglio venirci con la testa bionda,
che poi che fredda giacque sul guanciale,
ti pettinò co’ bei capelli a onda tua madre…adagio, per non farti male.
14. Ultimo canto
Solo quel campo, dove io volgo lento
l’occhio, biondeggia di pannocchie ancora,
e il solicello vi si trascolora.Fragile passa fra’ cartocci il vento:
uno stormo di passeri s’invola:
nel cielo è un gran pallore di vïola.Canta una sfogliatrice a piena gola:
Amor comincia con canti e con suoni
e poi finisce con lacrime al cuore.
15. Allora
Allora… in un tempo assai lunge
felice fui molto; non ora:
ma quanta dolcezza mi giunge
da tanta dolcezza d’allora!Quell’anno! per anni che poi
fuggirono, che fuggiranno,
non puoi, mio pensiero, non puoi,
portare con te, che quell’anno!Un giorno fu quello, ch’è senza
compagno, ch’è senza ritorno;
la vita fu vana parvenza
sì prima sì dopo quel giorno!Un punto!… così passeggero,
che in vero passò non raggiunto,
ma bello così, che molto ero
felice, felice, quel punto!
A più di un secolo dalla sua nascita, Giovanni Pascoli continua a parlare a chi sa fermarsi. La sua poesia non chiede attenzione. Chiede ascolto.
