Eugenio Montale e la “Fine dell’infanzia” una poesia tra stupore e consapevolezza

14 Agosto 2025

“Fine dell’infanzia” è una poesia di Eugenio Montale, un capolavoro ancora attuale che parla tra i versi dello scorrere del tempo fino alla maturità.

Eugenio Montale e la “Fine dell’infanzia” una poesia tra stupore e consapevolezza

Fine dell’infanzia” di Eugenio Montale è una poesia che esce dagli schemi ermetici del poeta e racconta uno dei passaggi più delicati dell’esistenza: la trasformazione dello sguardo infantile, spontaneo e fiducioso, in una coscienza adulta, capace di riconoscere la complessità e l’ambiguità del mondo.

È affascinante, se non addirittura commuovente, leggerla in un periodo estivo come questo, dove il sole costruisce un’atmosfera quasi sospesa, ricordando il viaggio privato del poeta e permettendoci di entrare in sintonia con lui tra un verso e l’altro.

L’alba di una consapevolezza

“Fine dell’infanzia” è la descrizione di un paesaggio dell’anima, dove la memoria diventa cornice e il poeta un viandante che fa da menestrello.

Montale riesce a far convivere due dimensioni temporali: il passato, dominato da una percezione pura e quasi mitica della realtà, e il presente, dove quello stesso paesaggio appare filtrato dalla conoscenza, dalla perdita e dal disincanto.

“Fine dell’infanzia” di Eugenio Montale

Rombando s’ingolfava
dentro l’arcuata ripa
un mare pulsante, sbarrato da solchi,
cresputo e fioccoso di spume.
Di contro alla foce
d’un torrente che straboccava
il flutto ingialliva.
Giravano al largo i grovigli dell’alighe
e tronchi d’alberi alla deriva.

Nella conca ospitale
della spiaggia
non erano che poche case
di annosi mattoni, scarlatte,
e scarse capellature
di tamerici pallide
più d’ora in ora; stente creature
perdute in un orrore di visioni.
Non era lieve guardarle
per chi leggeva in quelle
apparenze malfide
la musica dell’anima inquieta
che non si decide.

Pure colline chiudevano d’intorno
marina e case; ulivi le vestivano
qua e là disseminati come greggi,
o tenui come il fumo di un casale
che veleggi
la faccia candente del cielo.
Tra macchie di vigneti e di pinete,
petraie si scorgevano
calve e gibbosi dorsi
di collinette: un uomo
che là passasse ritto s’un muletto
nell’azzurro lavato era stampato
per sempre – e nel ricordo.

Poco s’andava oltre i crinali prossimi
di quei monti; varcarli pur non osa
la memoria stancata.
So che strade correvano su fossi
incassati, tra garbugli di spini;
mettevano a radure, poi tra botri,
e ancora dilungavano
verso recessi madidi di muffe,
d’ombre coperti e di silenzi.
Uno ne penso ancora con meraviglia
dove ogni umano impulso
appare seppellito
in aura millenaria.
Rara diroccia qualche bava d’aria
sino a quell’orlo di mondo che ne strabilia.

Ma dalle vie del monte si tornava.
Riuscivano queste a un’instabile
vicenda d’ignoti aspetti
ma il ritmo che li governa ci sfuggiva.
Ogni attimo bruciava
negl’istanti futuri senza tracce.
Vivere era ventura troppo nuova
ora per ora, e ne batteva il cuore.
Norma non v’era,
solco fisso, confronto,
a sceverare gioia da tristezza.
Ma riaddotti dai viottoli
alla casa sul mare, al chiuso asilo
della nostra stupita fanciullezza,
rapido rispondeva
a ogni moto dell’anima un consenso
esterno, si vestivano di nomi
le cose, il nostro mondo aveva un centro.

Eravamo nell’età verginale
in cui le nubi non sono cifre o sigle
ma le belle sorelle che si guardano viaggiare.
D’altra semenza uscita
d’altra linfa nutrita
che non la nostra, debole, pareva la natura.
In lei l’asilo, in lei
l’estatico affisare; ella il portento
cui non sognava, o a pena, di raggiungere
l’anima nostra confusa.
Eravamo nell’età illusa.

Volarono anni corti come giorni,
sommerse ogni certezza un mare florido
e vorace che dava ormai l’aspetto
dubbioso dei tremanti tamarischi.
Un’alba dové sorgere che un rigo
di luce su la soglia
forbita ci annunziava come un’acqua;
e noi certo corremmo
ad aprire la porta
stridula sulla ghiaia del giardino.
L’inganno ci fu palese.
Pesanti nubi sul torbato mare
che ci bolliva in faccia, tosto apparvero.
Era in aria l’attesa
di un procelloso evento.
Strania anch’essa la plaga
dell’infanzia che esplora
un segnato cortile come un mondo!
Giungeva anche per noi l’ora che indaga.
La fanciullezza era morta in un giro a tondo.

Ah il giuoco dei cannibali nel canneto,
i mustacchi di palma, la raccolta
deliziosa dei bossoli sparati!
Volava la bella età come i barchetti sul filo
del mare a vele colme.
Certo guardammo muti nell’attesa
del minuto violento;
poi nella finta calma
sopra l’acque scavate
dové mettersi un vento.

Il testo si apre con la descrizione di un paesaggio marittimo vivo e in movimento, non placido e statico. È segno dell’esplorazione infantile, della gioia di vivere, del tempo che avanza in questa fanciullezza, che avanza verso l’adolescenza.

La spiaggia, con le sue poche “case scarlatte” e le “tamerici pallide”, diventa il primo teatro dell’esperienza, un “asilo” che offre protezione e, allo stesso tempo, il primo orizzonte da cui guardare verso l’ignoto. La descrizione del paesaggio non è mai neutra: le colline, gli ulivi, i vigneti, le petraie e i dorsi gibbosi dei rilievi assumono un’aura mitica, come se fossero fissati nella memoria in un’istantanea eterna.

La descrizione del paesaggio non è mai neutra: le colline, gli ulivi, i vigneti, le petraie e i dorsi gibbosi dei rilievi assumono un’aura mitica, come se fossero fissati nella memoria in un’istantanea eterna.

Il momento della frattura

La seconda parte della poesia segna l’irruzione della consapevolezza. Montale parla dell’“età verginale”, quando la natura è percepita come superiore, nutrita da “altra linfa” rispetto all’essere umano.

È un’età “illusa”, in cui l’anima non immagina ancora di poter raggiungere il portento della realtà.

Ma la poesia ci avverte: quell’illusione è destinata a svanire. Gli anni “volarono corti come giorni” e un “mare florido e vorace” sommerse ogni certezza. L’immagine dei “tremanti tamarischi” diventa emblema di un’innocenza vulnerabile, ormai esposta alla tempesta; e sono le “pesanti nubi” ad annunciare il suo arrivo… una tempesta non solo meteorologica, ma interiore. È l’arrivo dell’adolescenza, con la sua inquietudine e il senso di perdita.

Versi chiave di “Fine dell’infanzia”

“Il nostro mondo aveva un centro”

Il verso che sintetizza perfettamente la sicurezza dell’età infantile, dove tutto ha un posto e un significato. I bambini incasellano ogni cosa ed è per questo che si dice “Sono come spugne”. Nei versi iniziali di Montale si scopre come il “centro” di Eugenio-bambino era quel paesaggio; e in quel paesaggio ci rispecchiamo noi lettori.

“Le nubi non sono cifre o sigle ma le belle sorelle che si guardano viaggiare”

Qui la percezione poetica è ancora pura, non contaminata dall’interpretazione razionale dell’arrivo dell’adolescenza. Si osserva il cielo, si parla delle nubi. Chi, guardando le nuvole, non ha mai cercato in esse una figura antropomorfa?

“La fanciullezza era morta in un giro a tondo”

Un solo verso per concludere la prima parte e aprire la seconda, quella dell’adolescenza. Un simbolo forte, potente, quello del cerchio che è ciclo continuo della vita, ma in questo caso anche dell’infanzia “giro a tondo”.

“Certo guardammo muti nell’attesa del minuto violento”

Una sospensione carica di presagio, che unisce paura e fascino per ciò che deve accadere.

Montale e il tempo della perdita

Montale (1896–1981) ha spesso indagato nei suoi versi il tema del tempo e della memoria, collocando le proprie esperienze individuali in un contesto esistenziale e universale.

“Fine dell’infanzia” si inserisce nella sua poesia come una riflessione sulla formazione dell’io e sul momento in cui si perde il paradiso dell’età primordiale.

Nato a Genova, cresciuto tra il mare ligure e le colline dell’entroterra, Montale ha sempre avuto un legame profondo con i paesaggi costieri, che nelle sue opere diventano specchi dell’anima.

Il “mare florido e vorace” della poesia è anche quello delle avanguardie storiche, delle tensioni sociali e culturali dell’inizio del Novecento, periodo in cui Montale muoveva i primi passi come poeta. La sua generazione, segnata dalla Prima Guerra Mondiale e da cambiamenti profondi, ha conosciuto in fretta la fine di ogni illusione giovanile.

L’attesa del “minuto violento”

Il “minuto violento” e la sua attesa descritta da Montale si può riconoscere nelle crisi collettive del nostro tempo, nei momenti in cui percepiamo che qualcosa di grande e irreversibile sta per accadere. La poesia diventa allora un monito a custodire ciò che resta di quell’età “illusa”, non per negare la realtà, ma per continuare a guardarla con occhi capaci di meraviglia.

Una poesia per tutti

In “Fine dell’infanzia”, Montale non si limita a raccontare un ricordo personale, ma costruisce un paesaggio interiore in cui i lettori possono ritrovare frammenti della propria storia personale.

È un invito a riconoscere quel confine sottile tra l’essere protetti e l’essere esposti, tra il sogno e la conoscenza, e a non dimenticare che, anche dopo la perdita dell’innocenza, il mare e le colline dell’infanzia rimangono dentro di noi, pronti a riaffiorare quando ne abbiamo bisogno.

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