“Dalla spiaggia” (1891) di Giovanni Pascoli, una poesia sull’illusione estiva

23 Luglio 2025

Scopri l'arte poetica di Giovanni Pascoli in "Dalla spiaggia", una riflessione sull'illusione e la bellezza del mare in una calda giornata estiva.

“Dalla spiaggia” (1891) di Giovanni Pascoli, una poesia sull'illusione estiva

Nel cuore dell’estate, quando il mare tace e la sua superficie si fa specchio di illusioni, basta uno sguardo per credere di vedere ciò che non c’è. “Dalla spiaggia” di Giovanni Pascoli ci porta proprio lì: sulla soglia di una visione, in un punto incerto tra verità e sogno, dove il sole inganna e la mente si lascia trasportare.

Leggiamola insieme:

 

“Dalla spiaggia” (1891) di Giovanni Pascoli

I
C’è sopra il mare tutto abbonacciato
il tremolare quasi d’una maglia:
in fondo in fondo un ermo colonnato,
nivee colonne d’un candor che abbaglia:
una rovina bianca e solitaria,
là dove azzurra è l’acqua come l’aria:
il mare nella calma dell’estate
ne canta tra le sue larghe sorsate.

II
O bianco tempio che credei vedere
nel chiaro giorno, dove sei vanito?
Due barche stanno immobilmente nere,
due barche in panna in mezzo all’infinito.
E le due barche sembrano due bare
smarrite in mezzo all’infinito mare;
e piano il mare scivola alla riva
e ne sospira nella calma estiva.

 

Due ottave, sedici versi appena, eppure il viaggio è profondo: va da una calma luminosa a una consapevolezza oscura, da un tempio immaginato a due barche che sembrano bare.

Come spesso accade nella poetica di Pascoli, la bellezza è fragile, sospesa sopra l’abisso.

E “Dalla spiaggia”, che è parte di “Myricae”, ne è l’ennesimo esempio.

In questa poesia, Pascoli mette in scena un’illusione ottica e la carica d’immagini naturali, dolore e dissolvenza, perché a scomparire lentamente non è solo il tempio che crede di vedere, bensì una speranza.

Ma l’illusione non viene mai condannata, perché è la strategia stessa con cui il poeta — da sempre orfano, da sempre fragile — cerca di proteggersi dal vuoto… E quando l’immagine svanisce, quando il tempio si rivela per ciò che non è, resta solo il mare: vasto, oscuro, dolente.

L’apparizione: un bianco colonnato nel mare azzurro

All’inizio tutto sembra quieto, perfino rassicurante. Il mare è “abbonacciato”, e su quella distesa compare un tempio: “un ermo colonnato, nivee colonne d’un candor che abbaglia”.

È un’apparizione incerta, tremolante. In quel candore che acceca si sente il desiderio pascoliano di trovare armonia e ordine nel caos: lo stesso desiderio che lo aveva portato, dopo l’assassinio del padre e la perdita dei fratelli, a rifugiarsi nei ritmi della natura e nelle immagini della classicità. Il tempio bianco, che nasce dal mare come una rovina, è forse anche questo: una memoria culturale idealizzata, un’architettura della mente costruita per sopravvivere al dolore. Sono dunque quelle le bare? Un simbolo che lo insegue, che lo raggiunge anche nel placido mare interiore?

Per un attimo, tutto sembra immobile. Il mare canta “tra le sue larghe sorsate”, e il lettore è trasportato in un luogo in cui l’estate è perfetta, sospesa. Ma quell’istante non può durare.

La rivelazione: due barche nere nel cuore dell’infinito

La seconda ottava è uno scarto. Il tempo della visione è finito. Il poeta si rivolge direttamente all’apparizione:

O bianco tempio che credei vedere / nel chiaro giorno, dove sei vanito?”

È la domanda che rimane dopo ogni miraggio, dopo ogni sogno svanito troppo in fretta. Al posto del tempio, restano due barche nere, immobili, “in panna”, sospese in un infinito senza confini.

Barche che sembrano “due bare / smarrite in mezzo all’infinito mare”.

Così si compie il passaggio dal sogno alla realtà. E quella realtà non consola. La luce che prima abbagliava ora si è ritratta, lasciando dietro di sé il buio della coscienza. L’immagine marina — quella che all’inizio cantava la calma estiva — ora “sospira”: un soffio più dolente, più stanco, come se anche il mare avesse percepito la scomparsa di qualcosa.

Una poesia da leggere in silenzio, come davanti al mare

“Dalla spiaggia” non ha bisogno di grandi spiegazioni. Va letta lentamente, sottovoce, o a mente, come si osserva il mare in un pomeriggio d’estate: in muta contemplazione, lasciando che le immagini emergano, che le illusioni si creino da sole, e che poi svaniscano, dimenticandosi alle spalle un lieve turbamento.

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