Giosuè Carducci scrive “Alla stazione in una mattina d’autunno” dedicandola alla sua musa, Carolina Cristofori Piva, che nascondeva sotto il tenero nome di Lidia. La data giugno 1875 e solo dopo alcuni accorgimenti e modifiche l’allega a “Odi barbare”, raccolta che vede la luce del 1877.
Tra le rime di questa lirica, traspare un Carducci che ama i classici e mette in scena un interno di stazione ferroviaria: un luogo emblematico della modernità, ma anche il simbolo dell’ultimo, vero addio poetico con la Lidia-umana.
La macchina-treno appare come un “mostro empio” (V. 33), capace di staccare la donna amata dal poeta e, insieme, di scoperchiare lo spleen di un secolo in corsa; il risultato è un poemetto d’addio e, allo stesso tempo, un atto di accusa alla vita moderna: grigia, frenetica, impersonale. Ma quest’addio del 1875 è solo un saluto amoroso sul ciglio della banchina, un saluto fatto d’amore e tenerezze. Dovrà passare ancora qualche anno prima di raggiungere il “Momento epico” e la fine del suo idillio romantico.
“Alla stazione in una mattina d’autunno” di Giosuè Carducci
Oh quei fanali come s’inseguono
accidiosi là dietro gli alberi,
tra i rami stillanti di pioggia
sbadigliando la luce su ‘l fango!Flebile, acuta, stridula fischia
la vaporiera da presso. Plumbeo
il cielo e il mattino d’autunno
come un grande fantasma n’è intorno.Dove e a che move questa, che affrettasi
a’ carri foschi, ravvolta e tacita
gente? a che ignoti dolori
o tormenti di speme lontana?Tu per pensosa, Lidia, la tessera
al secco taglio dài de la guardia,
e al tempo incalzante i begli anni
dài, gl’istanti gioiti e i ricordiVan lungo il nero convoglio e vengono
incappucciati di nero i vigili,
com’ombre; una fioca lanterna
hanno, e mazze di ferro: ed i ferreifreni tentati rendono un lugubre
rintocco lungo: di fondo a l’anima
un’eco di tedio risponde
doloroso, che spasimo pare.E gli sportelli sbattuti al chiudere
paion oltraggi: scherno par l’ultimo
appello che rapido suona:
grossa scroscia su’ vetri la pioggia.Già il mostro, conscio di sua metallica
anima, sbuffa, crolla, ansa, i fiammei
occhi sbarra; immane pe’ buio
gitta il fischio che sfida lo spazio.Va l’empio mostro; con traino orribile
sbattendo l’ale gli amor mie portasi.
Ahi, la bianca faccia e ‘l bel velo
salutando scompar ne la tènebra.O viso dolce di pallor roseo,
o stellanti occhi di pace, o candida
tra’ floridi ricci inchinata
pura fronte con atto soave!Fremea la vita nel tepid’aere,
fremea l’estate quando mi arrisero;
e il giovine sole di giugno
si piacea di baciar luminosoin tra i riflessi del crin castanei
la molle guancia: come un’aureola
più belli del sole i miei sogni
ricingean la persona gentile.Sotto la pioggia, tra la caligine
torno ora, e ad esse vorrei confondermi;
barcollo com’ebro, e mi tocco,
non anch’io fossi dunque un fantasma.Oh qual caduta di foglie, gelida,
continua, muta, greve, su l’anima!
io credo che solo, che eterno,
che per tutto nel mondo è novembre.Meglio a chi ‘l senso smarrì de l’essere,
meglio quest’ombra, questa caligine:
io voglio io voglio adagiarmi
in un tedio che duri infinito.(25 giugno 1875)
Carducci c’introduce in una scena dal fascino cinematografico, dove cade la pioggia dai rami e il fango brilla del riverbero dei fanali. In una sequenza quasi futurista si affretta il fischio del treno, la folla, l’arrivo dei vigili: l’intera scena è in movimento attorno a Lidia e Carducci. Uno sfondo plumbeo e la modernità che avanza, incurante del loro amore.
È così che il poeta si focalizza su due livelli: da un lato descrive il paesaggio in modo minuzioso, quasi maniacale, con una cura superiore a quella del verista, e dall’altro si concentra su di sé e la sua bella; parla dell’amore, dei sentimenti, del tempo in cui nasce l’amore — l’estate — e di quello in cui l’animo penetra in una vaghezza d’eternità — l’autunno.
Lo spleen della modernità
La poesia traduce in immagini tattili e uditive una nevrosi collettiva. Il treno, simbolo ottocentesco di progresso, nella poesia di Carducci assume le sembianze perfide di un “mostro”, un “empio”, dotato di un’“anima metallica”; e, si sa, se l’anima è di metallo non può avere un cuore, altrimenti l’Uomo di Latta non sarebbe andato a cercarlo. Carducci coglie nella modernità ciò che Baudelaire avrebbe chiamato spleen: angoscia senza causa, “un’eco di tedio” (V. 23) che risponde dal fondo dell’anima.
Dietro c’è la memoria solare: “fremea l’estate quando mi arrisero; / e il giovine sole di giugno” (V. 42-43). È la luce degli innamorati, la classica luce di giugno posta contro il nero industriale. Non vince, non potrebbe riuscirci, dopotutto la terra gira e il tempo scorre, ma ricorda la perdita del poeta. Dal confronto estate/autunno nasce l’addio privato, che non sarà nulla in confronto al lutto del poeta e a “Momento epico”.
Versi importanti
“Io credo che… per tutto nel mondo è novembre”
Un verso importantissimo , che fa capire quanto in questa poesia novembre non sia solo novembre. I mesi, per Carducci, sono solo simbolici: piccoli parentesi metafisiche che servono a distinguersi come sintomi o cause.
E novembre è universale, è una stagione senza luce né frutto, dove le foglie cadono. Per questo è stata scelta come momento di partenza.
“Io voglio adagiarmi in un tedio che duri infinito”
Con queste parole, Carducci prova a distanziarsi dal dolore. È una conclusione sorprendente: l’auto-abbandono allo spleen, come se l’unico modo per sopportarlo fosse ascoltarlo fino in fondo. Ma questo abbandono dell’amata durerà tanto da renderla Poesia.
Carducci e la modernità
Nato nel 1835, Carducci è un autore “classico” tra i moderni. Professore, filologo, reinventa in italiano le strofe greco-latine, ma vive nel pieno dell’Italia post-unitaria e dell’industrializzazione. In altri testi può capitare che celebri il progresso contro la superstizione — come “L’inno a Satana” —; ma nella maturità, e specialmente nelle “Odi barbare”, lo slancio positivista si sfuma ed è più personale. Non rinnega la modernità, ne vede l’ambivalenza.
Lidia come figura poetica
Lidia è la figura lirica dietro cui c’è Carolina Cristofori Piva, donna colta e legata al mondo militare che Carducci amò e cantò per anni.
L’addio in stazione rimanda a incontri e separazioni reali — lui a Bologna, lei tra Milano e altri luoghi — fino al giorno della sua morte: ma ciò che conta è la trasfigurazione. L’amore privato diventa scena epocale: la macchina non strappa solo una donna al poeta, ma interrompe il rapporto umano trasformandolo in contratto di biglietti e orari.
Aspettare il treno alla stazione
Attraverso i suoi versi, questa poesia ci trasmette tutto il dolore di Carducci e ricorda quanto una separazione, anche se momentanea, può essere dolorosa.
Quante volte ci è capitato di non voler lasciare andare una persona pur sapendo che l’avremmo incontrata presto? Quella sensazione al centro del petto, il pizzicore agli occhi, è del tutto normale. È il bisogno di sentirla vicino, di saperla al sicuro.
Tutto questo accadeva anche a Carducci, quando su quella banchina era in attesa del treno; e accadrà senz’altro a molti quest’oggi, ma anche domani.