Carducci e Lidia “Alla stazione in una mattina d’autunno”, addio dopo l’estate

15 Settembre 2025

Chi era Lidia per Carducci? Un saluto sulla banchina dalle "Odi barbare": "Alla stazione in una mattina d'autunno" e l'addio che precede "Momento epico".

Carducci e Lidia “Alla stazione in una mattina d’autunno”, addio dopo l'estate

Giosuè Carducci scrive “Alla stazione in una mattina d’autunno” dedicandola alla sua musa, Carolina Cristofori Piva, che nascondeva sotto il tenero nome di Lidia. La data giugno 1875 e solo dopo alcuni accorgimenti e modifiche l’allega a “Odi barbare”, raccolta che vede la luce del 1877.

Tra le rime di questa lirica, traspare un Carducci che ama i classici e mette in scena un interno di stazione ferroviaria: un luogo emblematico della modernità, ma anche il simbolo dell’ultimo, vero addio poetico con la Lidia-umana.

La macchina-treno appare come un “mostro empio” (V. 33), capace di staccare la donna amata dal poeta e, insieme, di scoperchiare lo spleen di un secolo in corsa; il risultato è un poemetto d’addio e, allo stesso tempo, un atto di accusa alla vita moderna: grigia, frenetica, impersonale. Ma quest’addio del 1875 è solo un saluto amoroso sul ciglio della banchina, un saluto fatto d’amore e tenerezze. Dovrà passare ancora qualche anno prima di raggiungere il “Momento epico” e la fine del suo idillio romantico.

“Alla stazione in una mattina d’autunno” di Giosuè Carducci

Oh quei fanali come s’inseguono
accidiosi là dietro gli alberi,
tra i rami stillanti di pioggia
sbadigliando la luce su ‘l fango!

Flebile, acuta, stridula fischia
la vaporiera da presso. Plumbeo
il cielo e il mattino d’autunno
come un grande fantasma n’è intorno.

Dove e a che move questa, che affrettasi
a’ carri foschi, ravvolta e tacita
gente? a che ignoti dolori
o tormenti di speme lontana?

Tu per pensosa, Lidia, la tessera
al secco taglio dài de la guardia,
e al tempo incalzante i begli anni
dài, gl’istanti gioiti e i ricordi

Van lungo il nero convoglio e vengono
incappucciati di nero i vigili,
com’ombre; una fioca lanterna
hanno, e mazze di ferro: ed i ferrei

freni tentati rendono un lugubre
rintocco lungo: di fondo a l’anima
un’eco di tedio risponde
doloroso, che spasimo pare.

E gli sportelli sbattuti al chiudere
paion oltraggi: scherno par l’ultimo
appello che rapido suona:
grossa scroscia su’ vetri la pioggia.

Già il mostro, conscio di sua metallica
anima, sbuffa, crolla, ansa, i fiammei
occhi sbarra; immane pe’ buio
gitta il fischio che sfida lo spazio.

Va l’empio mostro; con traino orribile
sbattendo l’ale gli amor mie portasi.
Ahi, la bianca faccia e ‘l bel velo
salutando scompar ne la tènebra.

O viso dolce di pallor roseo,
o stellanti occhi di pace, o candida
tra’ floridi ricci inchinata
pura fronte con atto soave!

Fremea la vita nel tepid’aere,
fremea l’estate quando mi arrisero;
e il giovine sole di giugno
si piacea di baciar luminoso

in tra i riflessi del crin castanei
la molle guancia: come un’aureola
più belli del sole i miei sogni
ricingean la persona gentile.

Sotto la pioggia, tra la caligine
torno ora, e ad esse vorrei confondermi;
barcollo com’ebro, e mi tocco,
non anch’io fossi dunque un fantasma.

Oh qual caduta di foglie, gelida,
continua, muta, greve, su l’anima!
io credo che solo, che eterno,
che per tutto nel mondo è novembre.

Meglio a chi ‘l senso smarrì de l’essere,
meglio quest’ombra, questa caligine:
io voglio io voglio adagiarmi
in un tedio che duri infinito.

(25 giugno 1875)

Carducci c’introduce in una scena dal fascino cinematografico, dove cade la pioggia dai rami e il fango brilla del riverbero dei fanali. In una sequenza quasi futurista si affretta il fischio del treno, la folla, l’arrivo dei vigili: l’intera scena è in movimento attorno a Lidia e Carducci. Uno sfondo plumbeo e la modernità che avanza, incurante del loro amore.

È così che il poeta si focalizza su due livelli: da un lato descrive il paesaggio in modo minuzioso, quasi maniacale, con una cura superiore a quella del verista, e dall’altro si concentra su di sé e la sua bella; parla dell’amore, dei sentimenti, del tempo in cui nasce l’amore — l’estate — e di quello in cui l’animo penetra in una vaghezza d’eternità — l’autunno.

Lo spleen della modernità

La poesia traduce in immagini tattili e uditive una nevrosi collettiva. Il treno, simbolo ottocentesco di progresso, nella poesia di Carducci assume le sembianze perfide di un “mostro”, un “empio”, dotato di un’“anima metallica”; e, si sa, se l’anima è di metallo non può avere un cuore, altrimenti l’Uomo di Latta non sarebbe andato a cercarlo. Carducci coglie nella modernità ciò che Baudelaire avrebbe chiamato spleen: angoscia senza causa, “un’eco di tedio” (V. 23) che risponde dal fondo dell’anima.

Dietro c’è la memoria solare: “fremea l’estate quando mi arrisero; / e il giovine sole di giugno” (V. 42-43). È la luce degli innamorati, la classica luce di giugno posta contro il nero industriale. Non vince, non potrebbe riuscirci, dopotutto la terra gira e il tempo scorre, ma ricorda la perdita del poeta. Dal confronto estate/autunno nasce l’addio privato, che non sarà nulla in confronto al lutto del poeta e a “Momento epico”.

Versi importanti

“Io credo che… per tutto nel mondo è novembre”

Un verso importantissimo , che fa capire quanto in questa poesia novembre non sia solo novembre. I mesi, per Carducci, sono solo simbolici: piccoli parentesi metafisiche che servono a distinguersi come sintomi o cause.

E novembre è universale, è una stagione senza luce né frutto, dove le foglie cadono. Per questo è stata scelta come momento di partenza.

“Io voglio adagiarmi in un tedio che duri infinito”

Con queste parole, Carducci prova a distanziarsi dal dolore. È una conclusione sorprendente: l’auto-abbandono allo spleen, come se l’unico modo per sopportarlo fosse ascoltarlo fino in fondo. Ma questo abbandono dell’amata durerà tanto da renderla Poesia.

Carducci e la modernità

Nato nel 1835, Carducci è un autore “classico” tra i moderni. Professore, filologo, reinventa in italiano le strofe greco-latine, ma vive nel pieno dell’Italia post-unitaria e dell’industrializzazione. In altri testi può capitare che celebri il progresso contro la superstizione — come “L’inno a Satana” —; ma nella maturità, e specialmente nelle “Odi barbare”, lo slancio positivista si sfuma ed è più personale. Non rinnega la modernità, ne vede l’ambivalenza.

Lidia come figura poetica

Lidia è la figura lirica dietro cui c’è Carolina Cristofori Piva, donna colta e legata al mondo militare che Carducci amò e cantò per anni.

L’addio in stazione rimanda a incontri e separazioni reali — lui a Bologna, lei tra Milano e altri luoghi — fino al giorno della sua morte: ma ciò che conta è la trasfigurazione. L’amore privato diventa scena epocale: la macchina non strappa solo una donna al poeta, ma interrompe il rapporto umano trasformandolo in contratto di biglietti e orari.

Aspettare il treno alla stazione

Attraverso i suoi versi, questa poesia ci trasmette tutto il dolore di Carducci e ricorda quanto una separazione, anche se momentanea, può essere dolorosa.

Quante volte ci è capitato di non voler lasciare andare una persona pur sapendo che l’avremmo incontrata presto? Quella sensazione al centro del petto, il pizzicore agli occhi, è del tutto normale. È il bisogno di sentirla vicino, di saperla al sicuro.

Tutto questo accadeva anche a Carducci, quando su quella banchina era in attesa del treno; e accadrà senz’altro a molti quest’oggi, ma anche domani.

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