“Canto delle donne” di Alda Merini, l’inno contro la violenza sulle donne

24 Novembre 2025

Scopri Canto delle donne di Alda Merini, la poesia-manifesto che denuncia la violenza contro le donne e dà voce alle ferite spesso taciute.

“Canto delle donne” di Alda Merini, l'inno contro la violenza sulle donne

Canto delle donne di Alda Merini è una poesia che è un vero manifesto contro la violenza che colpisce le donne. La poetessa dei Navigli scrive un atto d’accusa, cantando un inno di protesta per dare esistenza a tutte le donne violate, umiliate, ridotte al silenzio. Dà voce a tutta la violenza che è stata archiviata come follia, errore, destino, fatalità.

Il poema è un catalogo di ingiustizie che non concede tregua. Le immagini sono crude, dirette, impossibili da addomesticare: lividi adolescenti, letti di contenzione, mani “villose e canine” che aggrediscono, corpi esposti alla brutalità come a una sentenza. La poetessa non usa metafore per abbellire, usa parole per denunciare.

Canto delle donne è una poesia che è contenuta nella sezione nella raccolta Inediti della raccolta Testamento di Alda Merini, pubblicata da Mondadori nel 2025.

Leggiamo questa poesia di Alda Merini per viverne purtroppo l’attuale problematicità e condividere il significato.

Canto delle donne di Alda Merini

Io canto le donne prevaricate dai bruti
la loro sana bellezza, la loro “non follia”
il canto di Giulia io canto riversa su un letto
la cantilena dei salmi, delle anime “mangiate”
il canto di Giulia aperto portava anime pesanti
la folgore di un codice umano disapprovato da Dio,

Canto quei pugni orrendi dati sui bianchi cristalli
il livido delle cosce, pugni in età adolescente
la pudicizia del grembo nudato per bramosia,

Canto la stalla ignuda entro cui è nato il “delitto”
la sfera di cristallo per una bocca “magata”.

Canto il seno di Bianca ormai reso vizzo dall’uomo
canto le sue gambe esigue divaricate sul letto
simile ad un corpo d’uomo era il suo corpo salino
ma gravido d’amore come in qualsiasi donna.

Canto Vita Bello che veniva aggredita dai bruti
buttata su un letticciolo, battuta con ferri pesanti
e tempeste d’insulti, io canto la sua non stagione
di donna vissuta all’ombra di questo grande sinistro
la sua patita misura, il caldo del suo grembo schiuso
canto la sua deflorazione su un letto di psichiatra,
canto il giovane imberbe che mi voleva salvare.

Canto i pungoli rostri di quegli spettrali infermieri
dove la mano dell’uomo fatta villosa e canina
sfiorava impunita le gote di delicate fanciulle
e le velate grazie toccate da mani villane.

Canto l’assurda violenza dell’ospedale del mare
dove la psichiatria giaceva in ceppi battuti
di tribunali di sogno, di tribunali sospetti.

Canto il sinistro ordine che ci imbrigliava la lingua
e un faro di marina che non conduceva al porto.

Canto il letto aderente che aveva lenzuola di garza
e il simbolo-dottore perennemente offeso
e il naso camuso e violento degli infermieri bastardi.

Canto la malagrazia del vento traverso una sbarra
canto la mia dimensione di donna strappata al suo unico amore
che impazzisce su un letto di verde fogliame di ortiche
canto la soluzione del tutto traverso un’unica strada
io canto il miserere di una straziante avventura
dove la mano scudiscio cercava gli inguini dolci.

Io canto l’impudicizia di quegli uomini rotti
alla lussuria del vento che violentava le donne.

Io canto i mille coltelli sul grembo di Vita Bello
calati da oscuri tendoni alla mercé di Caino
e canto il mio dolore d’esser fuggita al dolore
per la menzogna di vita
per via della poesia.

Il manicomio diventa metafora della follia umana

C’è un luogo dove la ragione si perde, ma non è quello che crediamo. Nella poesia di Alda Merini l’ospedale psichiatrico smette di essere un edificio di contenzione, ma diventa una gigantesca, terribile metafora della condizione umana.

Rileggendo Canto delle donne, in vista del 25 novembre, Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne, scopriamo che le sbarre di cui parla la poetessa non dividono i sani dai malati, ma l’innocenza dalla ferocia. Il manicomio diventa lo specchio oscuro di una società che si proclama civile (“sana”) mentre esercita la violenza più brutale (“la follia”) sui più deboli.

Il grande ribaltamento: chi è il vero folle?

Nei versi di Alda Merini avviene un rovesciamento sconvolgente. Le donne internate, recluse, violate, appaiono attraverso la loro “sana bellezza” e la loro “non follia”. Sono portatrici di amore (“gravido d’amore”), di fede (“cantilena dei salmi”), di umanità ferita. Sono persone.

Chi sono allora i folli? Sono coloro che dovrebbero avere rispetto, cura, amore e invece diventano carnefici. I “bruti”, gli “infermieri bastardi” con la mano “villosa e canina”, i dottori “perennemente offesi”.

In questo mondo capovolto, la follia non è la fragilità delle donne, ma la ferocia lucida degli uomini che le aggrediscono. L’ospedale psicatrico diventa la rappresentazione simbolica di una cultura maschile violenta, un “codice umano disapprovato da Dio”.

Alda Merini parla di “tribunali di sogno, di tribunali sospetti” e di un “faro di marina che non conduceva al porto”. È l’immagine perfetta dell’inganno delle istituzioni.

Crediamo di essere protetti, guidati, difesi. In realtà, molte strutture, sociali, familiari, politiche, replicano la logica del manicomio, silenziano, normalizzano, correggono, impongono.

Il vero delirio dell’umanità è questo, non saper accogliere la fragilità altrui, non sopportare la differenza, trasformare la cura in controllo e l’amore in possesso.

Alda Merini compie un’operazione rivoluzionaria: ribalta il concetto di “pazzia”. Le donne internate, Giulia, Bianca, Vita Bello, sono descritte attraverso la loro “sana bellezza” e la loro “non follia”. Sono colpevoli solo di essere vive, di essere sensibili, di essere “gravide d’amore”.

I veri folli, nel sistema descritto dalla poetessa, sono gli uomini di potere: i medici e gli infermieri con mani “villose e canine”, figure bestiali che rappresentano l’autorità patriarcale. L’ospedale psichiatrico diventa così la metafora del mondo,  un luogo governato da un ordine sinistro, dove chi detiene la forza la usa per spezzare chi è delicato.

La pazzia non è nella mente delle donne, ma nella ferocia della società che le “mangia”, le giudica in “tribunali sospetti” e le rinchiude in un reparto o tra le mura domestiche.

Caino e la distruzione dell’innocenza

Quando Merini evoca i coltelli calati “alla mercé di Caino”, ricorda che la violenza non è un incidente, ma una ricorrenza tragica nella storia umana. Il riferimento biblico è la chiave di volta del manifesto meriniano. Caino non è un nemico straniero: è il fratello.

Questo verso smaschera la natura più insidiosa della violenza sulle donne: raramente essa arriva da un mostro sconosciuto. Quasi sempre, il “bruto” ha il volto familiare di chi diceva di amare. La mano che diventa “scudiscio” è la stessa che avrebbe dovuto proteggere.

Alda Merini ricorda che il pericolo più grande si nasconde spesso nell’intimità, in quella vicinanza che dovrebbe essere rifugio e invece diventa trappola mortale, una “stalla ignuda” dove si consuma il delitto.

La Poesia come atto di Giustizia

Alda Merini chiude con una confessione straziante. Il senso di colpa per essersi salvata “per la menzogna di vita, per via della poesia”. Lei è fuggita all’annientamento totale perché ha potuto scrivere. Ha trasformato il dolore in parole.

Questo testo diventa la voce di chi non ce l’ha fatta. Giulia, Bianca e Vita Bello non sono più solo nomi di vecchie compagne di cella. Sono i nomi di tutte le donne uccise, violentate o zittite in ogni angolo del mondo.

Il Canto delle donne è un invito a non distogliere lo sguardo. Ci insegna che la violenza prospera nel silenzio e che l’unico modo per combattere la “follia” dei bruti è continuare a cantare la verità, restituendo dignità e memoria a chi è stata “prevaricata”.

In un mondo dove i carnefici indossano il camice bianco e le vittime sono legate ai letti, solo la poesia può ristabilire la verità. Alda Merini canta per dare nome all’indicibile, per rompere il silenzio che protegge gli aggressori e condanna le vittime.

Salvarsi “per via della poesia” significa avere il coraggio di chiamare le cose con il loro nome, ovvero riconoscere la violenza, smascherare la menzogna, liberare la parola.

Perché finché ci sarà una donna a cui viene tolta la voce, finché una mano colpirà un corpo innocente, finché un “naso violento” abuserà del proprio potere, il mondo intero sarà un manicomio a cielo aperto.

Un luogo senza ragione. Un luogo senza Dio. Un luogo che possiamo cambiare solo iniziando a guardarlo per quello che è.

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