“Apollo primitivo” di Rainer Maria Rilke, quando la poesia diventa rivelazione

22 Agosto 2025

“Apollo primitivo” di Rilke trasforma la statua del dio in rivelazione poetica: un inno alla bellezza che nasce, all’attesa e alla promessa della parola.

"Apollo primitivo" di Rainer Maria Rilke, quando la poesia diventa rivelazione

Nelle sue “Nuove poesie” — Neue Gedichte, 1907-1908 — Rainer Maria Rilke, si confronta spesso con statue, sculture e immagini mitologiche: non semplici oggetti artistici, ma presenze vive, che continuano a interrogare chi le guarda.

Tra questi componimenti spicca “Apollo primitivo” — “Archaïscher Apollo —, meno celebre del più noto “Torso arcaico di Apollo”, ma altrettanto rivelatore della poetica rilkeana. Si tratta di un testo che cattura l’istante in cui l’arte antica diventa poesia, e la bellezza classica si fa ferita, illuminazione, rivelazione.

Il mito di Apollo: luce, poesia, misura

Prima di entrare nel cuore della poesia, è utile ricordare cosa rappresentava Apollo nel mondo antico. Figlio di Zeus e Latona, fratello di Artemide, Apollo era il dio della musica, dell’arte, della profezia e del sole. Nelle raffigurazioni arcaiche, appare giovane, luminoso, spesso con la cetra o con l’arco: simbolo di armonia e di equilibrio.

Ma Apollo era anche divinità oracolare: attraverso Delfi, parlava agli uomini con enigmi che univano verità e mistero. Questo doppio volto — luce e segreto, chiarezza e profezia — affascinò Rilke, che proprio attraverso l’immagine di statue arcaiche e classiche cercava un contatto con ciò che resta eterno nell’arte.

“Apollo primitivo” si inserisce così nella lunga tradizione poetica che va dagli Inni omerici fino a Rilke stesso, con una differenza decisiva: per il poeta del Novecento non è più la religione a dare vita all’immagine del dio, ma la poesia stessa, che lo restituisce al presente.

“Apollo primitivo” di Rainer Maria Rilke

(Italiano)

Come talvolta in mezzo ai rami ancora
spogli un mattino sorge, e in quel momento
è primavera: così nulla affiora
dal suo capo, che il subito portento

della poesia non ci ferisca; il muro
d’ombra è lontano dal suo sguardo incauto
troppo fresca è la fronte per il lauro,
e solo tardi all’arco delle pure

sue sopracciglia sorgerà il rosaio,
da cui foglie cadute e sparse il lieve
tremito della bocca veleranno,

quella che tace adesso e accenna solo
a un sorriso da cui nitida beve
il canto come un’acqua nella gola.

Una primavera che sboccia

La poesia si apre con un’immagine naturale: i rami spogli che, all’improvviso, in un mattino di sole, annunciano la primavera. È una scena di rinascita, di vita che torna, di fioritura. Rilke paragona questa improvvisa apparizione al volto della statua di Apollo: nulla emerge senza che la poesia stessa ci “ferisca”, colpendoci come un bagliore inatteso.

Qui si avverte la centralità della poetica rilkeana: l’arte non è contemplazione distaccata, ma esperienza che scuote, ferisce, trasforma. Così come la primavera arriva come un colpo di luce, l’immagine di Apollo si imprime nella coscienza del poeta.

L’adolescenza del dio

Nelle strofe successive, Rilke insiste sull’idea di giovinezza. Lo sguardo di Apollo è “incauto”, ancora lontano dalle ombre del tempo e dal “lauro” che un giorno ne incoronerà la fronte. La corona d’alloro, simbolo della vittoria poetica e musicale, appartiene al futuro: qui il dio appare “troppo fresco” per portarla.

È un Apollo ancora in formazione, primitivo appunto, non compiuto. Lo stesso termine “primitivo” rimanda a un’arte arcaica, ma anche a un momento originario, in cui la bellezza non è fissata in schemi, bensì in divenire.

La statua non raffigura un dio già adulto, ma un giovane che porta in sé la promessa della divinità: lo splendore non è ancora pieno, ma in potenza.

Le sopracciglia e la bocca: un volto in attesa

Il terzo movimento della poesia si concentra sui dettagli del volto. Le sopracciglia, ancora pure, si curveranno come un arco da cui sorgerà un “rosaio”: immagine delicata che richiama il fiorire dei sentimenti. Le foglie cadute, invece, si poseranno leggere sulla bocca, velandone il tremito.

La bocca non parla ancora, tace. Ma da essa si intravede un sorriso leggero, accennato, da cui già sgorga la promessa del canto. Rilke qui lega la dimensione corporea alla poesia: il sorriso diventa fonte, da cui il canto scaturisce come acqua chiara che scende in gola.

Il dio muto si prepara a diventare voce, oracolo, musica.

Il tema dell’attesa e della rivelazione

In “Apollo primitivo” domina un senso di attesa. Tutto è sul punto di accadere, ma non ancora compiuto: la primavera che sta per fiorire, la corona che un giorno cingerà la fronte, il sorriso che anticipa la parola. È la poesia stessa a dare vita al dio, a renderlo presente.

Rilke sembra dirci che l’arte non è mai statica: anche una statua, apparentemente immobile, contiene in sé un movimento, un divenire, un potenziale. E chi guarda deve saperlo cogliere.

In questo senso, Apollo non è soltanto un dio del passato, ma una figura che continua a parlare a chi sa lasciarsi “ferire” dalla bellezza.

Apollo e il destino della poesia

In controluce, “Apollo primitivo” è anche una riflessione sulla poesia stessa. Il dio giovane, ancora senza la corona d’alloro, rappresenta il poeta che si forma, che non ha ancora compiuto la sua rivelazione ma porta in sé la promessa. La bocca silenziosa è come la parola che non si è ancora fatta verso, ma che già vibra nella materia dell’essere.

Rilke, che in quegli anni viveva a Parigi e frequentava il mondo dell’arte (in particolare la scultura di Rodin), trasferisce nella poesia il linguaggio delle forme plastiche: le sopracciglia, la bocca, la fronte diventano dettagli da cui traspare la vita interiore. È la poesia stessa a trasformare la pietra in carne, l’immagine in canto.

Confronto con il “Torso arcaico di Apollo”

Non si può leggere “Apollo primitivo” senza pensare al più famoso “Torso arcaico di Apollo”, scritto sempre da Rilke. In quel testo, la statua mutila del dio si fa presenza viva che ci fissa e ci ammonisce con il celebre verso finale: “Tu devi cambiare la tua vita”.

In Apollo primitivo il tono è diverso: non c’è un imperativo categorico, ma una rivelazione in divenire, un’attesa fiduciosa. È come se il dio, qui, non ci imponesse un cambiamento immediato, ma ci accompagnasse verso di esso, mostrando che la bellezza è sempre nascente, mai conclusa.

Si potrebbe dire che il “Torso arcaico di Apollo” è il dio che giudica, mentre “Apollo primitivo” è il dio che cresce con noi.

Il volto di un dio giovane

Attraverso il volto del dio, il poeta ci mostra che la bellezza non è solo forma compiuta, ma processo, ferita, promessa. La statua non è marmo morto, ma vita che attende di sbocciare. E così, guardando Apollo con gli occhi della poesia, Rilke ci invita a fare altrettanto con il nostro tempo: non aspettare che il mondo sia perfetto per riconoscerne il valore, ma lasciarsi colpire dai suoi segni ancora acerbi, perché in essi risplende già la luce della rivelazione.

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