A una donna (1919) di Hermann Hesse, vibrante poesia sull’incapacità di amare davvero

7 Settembre 2025

Scopri come l'egoismo in amore può portare alla dissoluzione e all'oscurità, grazie "A una donna", la confessione poetica di Hermann Hesse.

A una donna (1919) di Hermann Hesse, vibrante poesia sull'incapacità di amare davvero

A una donna (An eine Frau)di Hermann Hesse è una confessione poetica sull’incapacità di avere una relazione amorosa duratura. Il poeta tedesco si mette a nudo, rivelando la sua incapacità di amare secondo le regole comuni, la sua fedeltà soltanto a un “astro interno” che lo trascina verso la dissoluzione, e il suo inevitabile legame con la morte. Una poesia che è allo stesso tempo autoritratto e condanna, dove Eros e Thanatos si intrecciano in un duello senza scampo.

La poesia fu scritta nel 1919, in uno dei momenti di crisi più devastanti della sua vita. Un anno prima, nella primavera del 1919, lo scrittore si era separato definitivamente dalla moglie Mia Bernoulli, madre dei suoi tre figli. La frattura matrimoniale, insieme alla depressione e all’isolamento, lo aveva spinto verso la psicoanalisi junghiana, un percorso che avrebbe segnato profondamente la sua scrittura.

A una donna fa parte della raccolta di poesie Die Gedichte (Le poesie) di Hermann Hesse, pubblicata per la prima volta da Fretz & Wasmuth, Zürich 1942, poi nella nuova edizione, Suhrkamp, Frankfurt am Main 1953. Noi ci siamo avvalsi del libro Sull’amore (Wer lieben kann, ist glücklich), A cura di Volker Michels, pubblicato da Suhrkamp Verlag, Frankfurt am Main 1985. L’edizione italiana con la traduzione di Bruna Bianchi è di Arnoldo Mondadori Editore, Milano 1988.

Leggiamo la poesia d’amore di Hermann Hesse per coglierne il significato.

A una donna di Hermann Hesse

Indegno io sono, indegno d’ogni amore,
ardo soltanto e non so come sia,
sono il lampo che scocca dalla nube,
sono vento, tempesta, melodia.

Amo però che amore mi sia dato,
accetto sacrifici e voluttà,
dalle lagrime sempre accompagnato
in quanto estraneo e senza fedeltà.

Sono fedele solo all’astro interno
che alla dissoluzione mi richiama,
che dal piacere mi distilla inferno,
che tuttavia il mio cuore loda ed ama.

Stregone e seduttore per mia sorte,
sèmino acre piacere presto spento,
ad esser come bimbe, come bestie v’apprendo,
e il mio signore e il mio guida è la morte.

La confessione di un uomo che non sa essere fedele

A una donna , scritta da Hermann Hesse nel 1919, non è una semplice lirica d’amore. È un’auto confessione pronunciata nel momento più buio della sua vita. Per capirla davvero, bisogna leggerla come una lettera franca e crudele a una donna, reale o immaginaria, in cui l’autore avverte chi ha di fronte. Questo sono io, con le mie ferite e i miei limiti. È il ritratto di un’anima in frantumi, lucida nel riconoscere la propria incapacità di amare in modo stabile e rassicurante.

La consapevolezza di non saper amare veramente

L’inizio della poesia è una confessione senza la ricerca di attenuanti.

Indegno io sono, indegno d’ogni amore

Hesse si presenta senza maschere, ma subito dopo precisa la vera natura del problema. Non gli manca il sentimento, gli manca la forma dell’amore.

Ardo soltanto e non so come sia

Il poeta sente intensamente di essere attratto dalle donne, ma non sa trasformare il “fuoco”, la passione, in relazione stabile, reciproca. Per spiegarsi, sceglie immagini che media dall’ambiente naturale, come nel suo stile. Il “lampo che scocca dalla nube” è improvviso, abbaglia, può ferire, e soprattutto dura un istante.

Il problema non è la mancanza di sentimento, ma il contrario. Il poeta “arde”, prova emozioni fortissime, però non sa trasformarle in una relazione stabile. Per spiegarsi usa immagini che attinge dalla natura. Un lampo che abbaglia e scompare, il vento e la tempesta che sconvolgono tutto per un momento.

Queste sono figure che affascinano, ma non costruiscono una casa in cui stare. Sono sinonimo d’instabilità. Anche la “melodia” incanta, ma dura il tempo di una musica. In pratica confessa si essere in grado di portare emozioni intense e bellezza, ma non è in grado di promettere continuità o protezione.

Desiderare l’amore ma non saperlo sostenere

Nella seconda strofa della poesia di Hermann Hesse, il poeta ammette una contraddizione dolorosa. Pur sapendo di non saper amare come si dovrebbe, desidera essere amato. Dice letteralmente che “ama che amore gli sia dato”. Ovvero, gli piace ricevere affetto.

Aggiunge che accetta sia i sacrifici sia i piaceri che l’amore porta con sé. Li prende, non si tira indietro. Ma avverte che, con lui, ogni storia è sempre accompagnata da lacrime. Non è un incidente, è la regola. Il motivo lo dice chiaramente: si sente “estraneo”. È chiaro che non riesce mai a sentirsi davvero “a casa” con l’altro, né con se stesso dentro la relazione. Non è capace di mostrare fedeltà, non sa rimanere, non sa promettere continuità.

Quella di Hermann Hesse non è una scusa morale: è la sua natura. In pratica sta dicendo alla donna, che può accogliere tutto quello che può ricevere, come impegno e passione, ma non riesce a contraccambiare. Egli finirà per far male, perché non sa restare fedele e presente nel tempo. In sintesi: vuole l’amore, ma non riesce a sostenerlo.

Essere fedeli solo a sé stessi è dissoluzione

Il pensiero dell’autore si fa ancora più veritiero e aperto nella terza strofa. Hesse spiega perché non riesce a essere fedele a una persona. La sua unica fedeltà è verso un “astro interno”, una specie di bussola o demone interiore che lo guida. Questa forza non lo porta alla costruzione ma alla dissoluzione, lo spinge a sciogliere i legami, a perdersi, a disfare ciò che nasce.

Per questo Hermann Hesse dice che “dal piacere mi distilla inferno”. Anche ciò che dovrebbe essere gioia, quando passa attraverso questo filtro interiore, si trasforma in tormento e senso di vuoto. Eppure, ed è il punto più duro da accettare, lui ama proprio questa voce: il suo cuore “la loda ed ama”.

In pratica, Hermann Hesse sa che quella spinta lo rovina, ma la riconosce come la sua verità più profonda e le resta devoto. È qui che l’amore per l’altro cede. La fedeltà che potrebbe dare a una donna è già impegnata con questa legge oscura che lo governa.

Seduzione, regressione e sovranità della morte

Nell’ultima strofa, il grande genio tedesco si definisce “stregone e seduttore” per destino: non lo sceglie, è fatto così. Ha un fascino che attira, quasi magnetico. Ma dice subito qual è l’esito. Egli finisce sempre per seminare un piacere amaro e breve. Con lui l’intensità c’è, ma si spegne in fretta e lascia l’amaro retrogusto della delusione.

Poi aggiunge che, vicino a lui, gli altri finiscono per regredire: “come bimbe” (ingenui, disarmati) o “come bestie” (solo istinto). Cioè la relazione non matura, spoglia chi lo ama delle difese e della lucidità, riportandolo a uno stato primitivo: innocenza o impulso.

Il verso finale è la chiave sembra essere la chiave della poesia “il mio signore e la mia guida è la morte”. La Morte non è solo la fine della vita. È la forza che comanda la sua esistenza affettiva, il principio che ordina tutto verso la dissoluzione. In altre parole, anche quando c’è Eros (desiderio, passione), a decidere è sempre “Thanatos”, la spinta a spegnere, chiudere, distruggere.

Il poeta sembra voler dire che ha un fascino che travolge ma dura poco. Chi gli sta vicino finisce per perdere l’equilibrio. La vera legge a cui egli obbedisce non è l’amore, ma è la morte.

Un invito alla sincerità e un monito a non far vincere la morte

A una donna non è soltanto la lucida verità di un uomo che si confessa. È il ritratto di una frattura che attraversa molte vite incapaci di amare davvero. Hesse si fa ambasciatore di una generazione senza tempo, per la quale desiderare l’amore non coincide automaticamente con il saperlo sostenere.

Amare impegna perché richiede sacrificio, attenzione, apertura, cura. Nell’epoca attuale, però, l’egocentrismo tende a farsi norma. Gratificazioni istantanee, relazioni trattate come esperienze da consumare, un’“autenticità” usata talvolta come alibi per sottrarsi alla responsabilità sembrano essere la norma. Ma il desiderio non legittima l’incapacità di dare. Bisogna avere la consapevolezza che l’impulso è primordiale, la cura è una scelta.

In ciascuno abita un “astro interno”, una legge, una ferita, una vocazione, che talvolta entra in conflitto con il legame. La poesia costringe il lettore a guardare questo attrito senza trucchi: intensità contro durata, verità di sé contro responsabilità verso l’altro.

La forza della confessione di Hermann Hesse è che non rende affascinante l’infedeltà: la nomina. Trasforma un fascino spesso taciuto, accendere e poi consumare, in una verità detta. È un invito etico prima che sentimentale. L’autore invita a riconoscere i propri limiti, dichiararli, assumerne il costo. E, per chi si accosta a un legame, imparare a distinguere il lampo che abbaglia dalla luce che scalda.

Eros e Thanatos abitano ogni relazione, costruzione e perdita convivono in qualsiasi legame. La maturità consiste nel non lasciare all’ombra il comando. Per questo questa poesia ha un valore enoerm: perché tutti, almeno una volta, hanno sentito la tempesta e hanno sognato la casa. Il compito umano consiste nel provare a convertire il lampo in dimora. Quando non è possibile, occorre la lealtà di dirlo.

In un tempo che incorona l’io, la vera resistenza è la sincerità, il monito è chiaro: non lasciare che sia la morte (del legame, della cura, dell’altro) a vincere.

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