La poesia “Vorrei poter soffocare nella stretta delle tue braccia” di Cesare Pavese prende il titolo dai primi versi, ma è anche conosciuta come “12 dicembre 1927”, data in cui è stata scritta.
Un Cesare Pavese diverso
Ancora lontano dalle opere che lo avrebbero reso celebre, ma già segnato dal suo destino di inquietudine e tormento, questo Pavese appena ventenne sembra gridare tra i versi del “12 dicembre 1927” tutto il desiderio che in lui arde (V. 3) e si confonde con il dolore, un amore che diventa esperienza assoluta, capace anche di annientare (V. 39/48).
“12 dicembre 1927” di Cesare Pavese
Vorrei poter soffocare
nella stretta delle tue braccia
nell’amore ardente del tuo corpo
sul tuo volto, sulle tue membra struggenti
nel deliquio dei tuoi occhi profondi
perduti nel mio amore,
quest’acredine arida
che mi tormenta.Ardere confuso in te disperatamente
quest’insaziabilità della mia anima
già stanca di tutte le cose
prima ancor di conoscerle
ed ora tanto esasperata
dal mutismo del mondo
implacabile a tutti i miei sogni
e dalla sua atrocità tranquilla
che mi grava terribile
e noncurante
e nemmeno più mi concedela pacatezza del tedio
ma mi strazia tormentosamente
e mi pungola atroce,
senza lasciarmi urlare,
sconvolgendomi il sangue
soffocandomi atroce
in un silenzio che è uno spasimo
in un silenzio fremente.Nell’ebbrezza disperata
dell’amore di tutto il tuo corpo
e della tua anima perduta
vorrei sconvolgere e bruciarmi l’anima
spendere quest’orrore
che mi strappa gli urli
e me li soffoca in gola
bruciarlo annichilirlo in un attimo
e stringermi stringermi a te
senza ritegno più
ciecamente, febbrile,
schiantandoti, d’amore.Poi morire, morire,
con te.Il giorno tetro
in cui dovrò solitario
morire (e verrà, senza scampo)
quel giorno piangerò
pensando che potevo
morire così nell’ebbrezza
di una passione ardente.
Ma per pietà d’amore
non l’ho voluto mai.
Per pietà del tuo povero amore
ho scelto, anima mia,
la via del più lungo dolore.12 dicembre 1927
I nuclei centrali della poetica di Pavese
In questa poesia Pavese mette in scena un vero e proprio paradosso: l’amore come desiderio di fusione totale ed estrema (V. 9), una fusione che arriva fino alla morte, ma che porta alla rinuncia a questo annientamento per “pietà d’amore” (V. 49).
È questo un altro centro fondamentale della sua poetica: la consapevolezza di un destino inevitabile di solitudine (V. 43), e ancora la tensione verso l’assoluto (V. 10/15).
Non è casuale che Pavese scelga immagini di soffocamento, di urlo represso, di annientamento: l’amore è per lui non solo gioia, ma soprattutto lotta con il limite, con l’impossibilità di realizzare pienamente il proprio sogno.
È un testo che oscilla tra l’urgenza di vivere fino in fondo la passione — anche a costo della vita — e la scelta di sopportare un dolore prolungato, di rimanere vivi per fedeltà all’altro.
Con questi versi, Pavese non vuole descrivere un amore sereno o armonioso, ma vuole trasmettere l’urgenza e la violenza di un sentimento che diventa totalizzante. Pavese si confessa senza difese: vorrebbe morire abbracciato all’amata, ma decide di rinunciare per non ferire la fragilità dell’altro. La poesia è dunque anche un gesto di responsabilità, un atto di sacrificio.
Analisi dei passaggi chiave
Alcuni versi rivelano con particolare forza la drammaticità della poesia.
“Vorrei poter soffocare / nella stretta delle tue braccia”
L’amore è immaginato come un abbraccio mortale, in cui il desiderio e l’annullamento coincidono.
“dal mutismo del mondo / implacabile a tutti i miei sogni / e dalla sua atrocità tranquilla”
Qui si avverte la distanza tra l’io poetico e la realtà, percepita come ostile e indifferente.
“Poi morire, morire, / con te”
Il culmine del desiderio di fusione, l’utopia di un annullamento condiviso.
“Per pietà del tuo povero amore / ho scelto, anima mia, / la via del più lungo dolore”
Il finale ribalta la tensione iniziale. Non ci sarà la morte nell’abbraccio, ma la sopravvivenza al dolore, per pietà dell’altro.
L’amore e Cesare Pavese
Ossessionato dalle donne, Cesare Pavese continuerà a temerle per tutta la vita, non riuscendo mai a vivere con loro un rapporto sereno, tant’è che questo avrà un peso determinante nel 1950, dopo l’ennesima delusione, quando morì suicida per un’eccessiva dose di sonnifero.
In “Vorrei poter soffocare…” si percepisce già la struttura tipica del suo temperamento: la tensione verso un amore totale e insieme la consapevolezza della sua impossibilità. L’idea di scegliere “la via del più lungo dolore” (V. 53) per amore dell’altro richiama la sua attitudine al sacrificio, ma anche la sua inclinazione alla sofferenza come unica forma di autenticità.