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Sergio Romano, “Dalla Russia di Putin all’America di Trump, le nostre democrazie malate”

Quali sono i problemi delle nostre democrazie? Risponde Sergio Romano, giornalista e ambasciatore alla NATO a Mosca dal 1985 al 1989

MILANO – C’è chi lo vede come un dittatore, chi come un uomo giusto, pochi lo vedono come quello che effettivamente è: il Presidente della Repubblica Democratica Russa. Ma chi è Putin? Come è arrivato nella posizione in cui si trova? Cosa cambierà ora nel rapporto con l’Occidente con l’elezione di Donald Trump? Perché le democrazie si sono così spesso sentite intimorite da una figura come la sua? Quali sono i problemi delle nostre democrazie? Di questo e tanto altro ha parlato il giornalista Sergio Romano in “Putin e la ricostruzione della grande Russa” (Longanesi). Editorialista del Corriere della Sera, Sergio Romano è stato ambasciatore alla NATO a Mosca dal settembre 1985 al marzo 1989. Parlerà del libro insieme al direttore del Corriere della Sera, Luciano Fontana, a Bookcity Milano, sabato 19 alle ore 16.00 al Museo del Risorgimento. Noi l’abbiamo intervistato. Ecco cosa ci ha raccontato.

Qual era il suo intento nello scrivere questo libro?

La prima delle ragioni era quella di ristabilire una certa sobrietà nel modo di raccontare le vicende russe. Ho avuto l’impressione che nascesse e crescesse un certo pregiudizio nei confronti della Russia. Al di là delle reali colpe e delle reali responsabilità, mi sembrava che si stesse facendo di Putin il responsabile di tutto ciò che non va bene nel mondo. E questo mi è parso esagerato.

Come ci possiamo spiegare questo incredibile successo di Putin?

Putin è l’uomo che in qualche modo si è addossato una responsabilità: quella di restituire dignità e, per quanto possibile, potenza al suo paese. Era stato un agente del Kgb, rientrato in patria dopo la caduta del muro. Aveva lavorato prima nel comune di Leningrado, poi al Cremlino. Noi non sappiamo come e da chi sia stato prescelto per il compito di Primo Ministro e poi di Presidente della Repubblica Russa, però non c’è dubbio che la sua ascesa sia stata rapida e che non tutto è necessariamente noto. Molti pensano che le relazioni conservate col Kgb gli abbiano giovato. Ad ogni modo, mi pare che ciò che abbia avuto più importanza per Putin sia stato il crollo dell’Unione Sovietica, nonché della sua patria, un paese che aveva un suo statuto in Europa e nelle relazioni internazionali, un paese che improvvisamente si è disfatto.

Cosa faceva in quel periodo Putin?

Allora era a capo dell’ufficio di Dresda e quando cominciarono le manifestazioni nelle piazze chiese istruzioni al comando sovietico in Germania orientale. Ma Putin non ricevette nessun istruzione, semplicemente perché Mosca aveva semplicemente smesso di dare istruzioni ai suoi comandi e ai suoi uffici nel mondo. Questo lo lasciò profondamente scioccato. Aveva avuto l’impressione di un’abdicazione. E credo che da allora lui si fosse posto questo obiettivo. All’inizio, a parte qualche esibizione di forza, era in questa direzione che agiva e sembrava che lo comprendessero anche i suoi interlocutori occidentali: Bush figlio a un certo punto disse di averlo guardato negli occhi e di aver visto la sua anima, il rapporto con Berlusconi era molto molto positivo e anche con i turchi il rapporto era ottimo.

Cos’è successo poi?

Poi a un certo punto qualcosa è accaduto. Ma è accaduto in Russia o è accaduto in Occidente? Io credo che dovremmo porci questa domanda. Perché a un certo punto la Nato è andata al di là delle sue frontiere, nonostante avesse promesso che non si sarebbe estesa al di là della frontiera della Germania occidentale? D’un tratto la Nato ha annesso tutti i paesi che avevano firmato il patto di Varsavia, poi perfino i paesi del Baltico che erano state repubbliche Federate dell’Unione Sovietica (Lettonia, Estonia e Lituania). Insomma, era necessario? Rispondeva a un’esigenza? Vede, la Nato è un’alleanza molto diversa dalle alleanze del passato. E’ un’alleanza politico-militare fatta per fare la guerra. Infatti ha un comando supremo permanente, ha delle basi permanenti in Europa ma anche altrove. Un’alleanza così non può non avere un nemico, è concepita e organizzata in funzione di un nemico. Se non ha un nemico non ha motivo di esistere. Naturalmente, se si allarga l’alleanza fino a raggiungere le frontiere di un paese che prima con l’alleanza non confinava, beh, quel paese avrà pure delle reazioni, si chiederà se tutti questi movimenti sono stati fatti potenzialmente contro di lui.

Cambierà qualcosa adesso con l’elezione di Trump?

Innanzitutto, Trump lo conosciamo molto male. Siamo abbastanza sconcertati perché sta correggendo le cose che ha detto fino a dieci giorni fa. Di questo non possiamo non tener conto naturalmente, ma la sua simpatia per Putin mi pare che sia una costante della linea di Trump. Vuol dire che ritiene di poter parlare con lui, di poter avere dei rapporti. Tenga presente che la relativa simpatia che Putin ha dimostrato per Trump, e che è stata interpretata male perché è molto relativa, è in realtà una costante della politica russa, sovietica e post-sovietica. I russi hanno sempre preferito nelle presidenziali americane il candidato repubblicano a quello democratico.

Per quali ragioni?

Perché i repubblicani sono più isolazionisti, meno impiccioni, meno portati a esportare democrazia nel mondo. Sono quindi più realisti, più isolazionisti. I democratici, invece, sono generalmente molto più militanti sotto il profilo democratico, poi naturalmente anche loro si contraddicono, vengono a patti con paesi non democratici, però il partito democratico ha una storia molto più interventista. Ma in generale i russi sono andati abbastanza d’accordo coi repubblicani, Gorbačëv e Reagan, Putin e George W. Bush. Era chiaro che i russi avrebbero preferito Trump. Trump è effettivamente un isolazionista, anche se sui generis. Oggi un presidente americano non può essere isolazionista come poteva esserlo fino all’inizio del Novecento: il mondo è fatto diversamente, l’America è implicata su vari fronti e non può voltare le spalle a tutti.  Però può certamente ridurre i suoi impegni, ridurli finanziariamente e strategicamente e mi pare che questa sia l’intenzione di Trump e ciò a Putin fa piacere.

Torniamo alla Russia e alla sua cultura. A un certo punto nel libro dice che l’autoritarismo è radicato nella cultura russa. Può spiegarci meglio questo pensiero?

Per capire questo passaggio credo che sia necessario tornare alle origini del paese. Dopo la grande prova storica dell’invasione dei mongoli e dei tartari, che ha duramente provato il paese, nel momento del Granducato di Moscovia la Russia comincia a crescere, fino a diventare poi un impero. Questo accade su una scala geograficamente colossale. Ancora oggi, la Russia, nonostante le numerosi mutilazioni, è di gran lunga lo stato più grande al mondo. E questo allargamento dello stato russo è sempre avvenuto a spese di imperi declinanti, quelli che circondavano prima il Granducato di Moscovia e poi lo stato dello Zar. Questi imperi declinanti erano l’impero cinese, l’impero persiano e l’impero ottomano. Erano i tre grandi imperi che si erano spartiti l’Asia. Quando cominciano a declinare, la Russia inesorabilmente. Che tipo di identità può dare lei a un paese che ogni decennio ingloba centinaia e centinaia di persone appartenenti a stirpi e a gruppi nazionali differenti?

Un’identità va imposta in qualche modo?

Sì, va certamente imposta. Tenga però presente che c’è un collante per tutto il popolo slavo, presente anche nei momenti peggiori, che è la religione ortodossa. La Russia, soprattutto dopo il declino di Bisanzio, si è sempre considerata erede di quella grande tradizione bizantina. Però le popolazioni che fanno parte dell’impero russo sono di straordinaria varietà etnica: ci sono gli armeni, i georgiani, gli uzbeki, i turcomanni, e tanti altri. Inoltre nei confronti di questi popoli la Russia non si è mai comportata come potenza coloniale. E’ autoritaria, e certamente impone la sua autorità con grande durezza, però i suoi cittadini non russi hanno sempre ottenuto le cariche più alte.

Stiamo parlando di una sorta di sogno americano in Russia?

Sì (dice ridendo, ndr), il segno americano irrealizzato, o realizzato con qualche eccezione. Guardi all’epoca sovietica: Stalin era georgiano, Chruščёv era ucraino. Raggiungevano le più alte cariche. Il padre di Aliyev, che è l’attuale presidente dell’Azerbaigian, era un personaggio sovietico di grande importanza. Ed è un azero, non ha proprio nulla di slavo. Questo per dire che a un certo punto la Russia ha dovuto cercare di inventarsi un’identità.

Quale ruolo ha avuto la letteratura in questa ricerca di un’identità?

La letteratura è stato il cemento del paese. Puskin è il loro Dante, è il grande maestro della lingua, il grande poeta, il grande drammaturgo. Poi naturalmente sono venuti Gogol, Dostoevskij a Tolstoj. La letteratura ha cementato l’identità russa. Poi si sono inventati l’Eurasia. Noi siamo qualche cosa che voi europei non siete. Noi abbiamo un’originalità che ci rende in qualche modo autonomi sotto il profilo della nostra autocoscienza, perché siamo euroasiatici. Questa storia dell’Eurasia va e viene, c’è chi ci crede e chi ci crede un po’ meno. Putin ci crede, per esempio.

Prima parlava del fatto che la Nato ha bisogno di un nemico, delle democrazie minacciate, non all’altezza del compito. Quali sono i maggiori problemi delle nostre democrazie? In quarta di copertina c’è, per esempio, una frase interessante: “Dovremmo chiederci se all’origine dell’autoritarismo di Putin non vi sia anche la pessima immagine che le democrazie stanno dando di se stesse”. 

Lei ha detto che le democrazie si sono sentite minacciate. Forse sì e forse no. A mio avviso anche la percezione della minaccia è stata esagerata, un po’ strumentalizzata. Detto questo, la stato di salute delle democrazie è precario e quello che è accaduto negli Stati Uniti in questi ultimi mesi dimostra che c’è un malessere delle democrazie. Io per parecchio tempo ho pensato che una delle ragioni del malessere delle democrazie risiede nel fatto che sono diventate le democrazie del denaro. Negli Usa non si può fare una campagna elettorale senza un tesoretto, una somma raccolta. Obama, però, aveva cercato di crearsi un tesoretto democratico. Si ricorda quando durante la prima campagna aveva lanciato quei messaggi promozionali usando molto reti sociali per raccogliere piccole offerte?

Certo. Il fatto aveva avuto una certa eco.

Ecco, quelle piccole offerte erano in un certo senso una garanzia di democrazia, perché in quel modo non contraeva debiti, se non un debito orale di fronte a queste persone che gli davano 20, 30 o 50 dollari. Poi, già nel secondo mandato, un’iniziativa del genere è scomparsa. Hilary Clinton non la riprese e Trump tantomeno. Anzi, Trump avrà messo pure del suo nella campagna elettorale. C’è molto denaro nelle campagne elettorali e quando i finanziamenti sono cospicui chi prende il denaro contrae un debito. Non c’è niente da fare, non esiste un debito gratuito. Si contraggono dei debiti che a volte non coinvolgono direttamente il presidente eletto, mentre altre volte lo condizionano. Poi la corruzione è un dato che noi, che giustamente siamo miopi, vediamo in casa nostra, ma non è così, c’è un tasso di corruzione nel mondo molto elevato, come lo si spiega? Io non ho una spiegazione. Stiamo male. Siamo molto malandati.

 

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