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Accademia della Crusca, ”Giù le mani dall’italiano”

I pericoli che minacciano la lingua italiana oggi vengono soprattutto dall'idea che l'alta istruzione, quella impartita nelle università, debba avvenire in lingua straniera. È quanto affermato da Claudio Marazzini, docente di Storia della lingua italiana dell'Università del Piemonte Orientale e membro del Consiglio Direttivo dell'Accademia della Crusca...

Al convegno ‘Il potere della lingua’, oggi al C.N.R. di Roma, si discuterà la proposta di specificare nella Costituzione che l’italiano è la lingua ufficiale del nostro Paese. Ne abbiamo parlato con Claudio Marazzini, membro del comitato direttivo dell’Accademia della Crusca

MILANO – I pericoli che minacciano la lingua italiana oggi vengono soprattutto dall’idea che l’alta istruzione, quella impartita nelle università, debba avvenire in lingua straniera. È quanto affermato da Claudio Marazzini, docente di Storia della lingua italiana dell’Università del Piemonte Orientale e membro del Consiglio Direttivo dell’Accademia della Crusca, che cita il caso recente del Politecnico di Milano. L’abbiamo intervistato in occasione del convegno “Il potere della lingua. Politica linguistica e valori costituzionali” che si tiene oggi a Roma, presso la sede del C.N.R. (Consiglio Nazionale delle Ricerche). All’organizzazione hanno partecipato, accanto al Comitato Lingua Madre, anche l’Accademia della Crusca e l’Associazione Italiana dei Costituzionalisti, per la prima volta insieme. Con loro ci si interroga sul tema della lingua italiana come lingua ufficiale del Paese. All’ordine del giorno è la proposta di citare esplicitamente nella Costituzione la lingua italiana come lingua ufficiale della Repubblica.

Perché questo rinnovato interesse per le questioni che legano il tema della lingua all’ambito del Diritto?
Da un po’ di tempo l’Accademia della Crusca si occupa delle relazioni tra lingua italiana e giustizia. Si tratta di un nesso abbastanza naturale, perché ovviamente il Diritto utilizza la lingua in molte forme, al livello più alto nella formulazione della legge. In italiano si dibattono i processi, in italiano sono scritte le motivazioni delle leggi. Questo nesso tra lingua e Diritto è stato coltivato anche in tempi remoti, e ultimamente tra gli accademici della Crusca è entrato Paolo Grossi che è un giurista. Il tema è stato toccato più e più volte. Quando andammo dal presidente Napolitano, che ha una formazione giuridica, per conferirgli il titolo di accademico onorario, venne fuori il tema del rapporto tra Costituzione e lingua italiana. Lui ci chiese se era vero che ci fu una revisione linguistica della Costituzione da parte di uno scrittore del tempo, Pietro Pancrazi. Effettivamente questa revisione ci fu: in alcuni casi le correzioni proposte da Pancrazi vennero respinte, perché erano quelle di un letterato che spingeva per un uso aulico della lingua, mentre i costituenti preferivano una lingua più diretta, semplice e chiara, in questo caso a ragione. Il nesso tra lingua e Diritto si era già manifestato dunque in alcune questioni dibattute dai costituenti.
Poi naturalmente c’è tutto il versante della discussione sulla necessità di chiarezza delle leggi, sulla trasparenza della comunicazione con il pubblico. Da ultimo, di recente c’è stato un intervento della magistratura amministrativa riguardo al tentativo del Politecnico di Milano di eliminare la lingua italiana dai corsi universitari delle Lauree Magistrali. Al primo livello di giudizio il Tribunale di Milano ha già emesso una sentenza in difesa della lingua italiana. C’è stato però ricorso in appello: vedremo cosa deciderà il giudice.

Perché soltanto ora si è sentita l’esigenza di specificare nella Costituzione che l’italiano è la lingua ufficiale della Repubblica?
Secondo quanto stabilito dall’articolo 1 della Legge sulle minoranze linguistiche, l’italiano è lingua ufficiale della Repubblica, ma è vero che la Costituzione non menziona la lingua italiana, a differenza di quanto avviene in altre Costituzioni. In quella francese per esempio si nominano sia la bandiera sia la lingua. I costituenti italiani evidentemente non sentirono questa necessità, credo perché in quel momento era un fatto dato per scontato. In quel momento non c’era una lingua straniera così autorevole che rubasse spazi all’italiano.

E oggi da dove arrivano i pericoli che minacciano la lingua italiana?
Non credo che arrivino dalle lingue di minoranza. Noi abbiamo diverse comunità alloglotte, come Bolzano, la Valle d’Aosta, e minoranze linguistiche più piccole. Ma non è da lì che vengono tensioni e problemi: laddove queste esistono, sono tutelate da apposite leggi, di cui credo che queste comunità siano soddisfatte.
Credo che i problemi vengano soprattutto dall’idea che l’alta istruzione abbia tutto da guadagnare se avviene in una lingua straniera. Il caso del Politecnico di Milano mi sembra particolarmente significativo in questo senso, seguito da altri Atenei italiani che tendono a premiare i corsi di laurea che abbandonano l’italiano per l’inglese. Su questo sarebbe interessante ragionare.
Si è discusso molto già nelle precedenti legislature se inserire l’italiano nella Costituzione. Io non so se sia strettamente necessario. Strettamente necessario però sarebbe che la nostra lingua non venisse aggredita dagli italiani stessi.
Più che una legge, una soluzione autoritaria, occorrerebbe una riflessione collettiva su questo argomento.

Secondo lei quali sono le ragioni per cui l’università si interroga sull’opportunità di sostituire l’italiano con l’inglese nell’insegnamento?
L’università non si interroga affatto, di solito sono dei ministri o dei rettori che cercano di imporre la cosa: è un provvedimento che si tenta di imporre dall’alto. Tant’è vero che a Milano sono 150 i professori che hanno fatto ricorso contro il rettore del Politecnico. Ovviamente l’imposizione dell’inglese ha un effetto negativo sulla qualità della spiegazione. Per di più non si tratta di imporre l’inglese per un articolo scientifico – cosa giusta e inevitabile – ma per l’interazione con un pubblico che a sua volta, durante la professione, dovrà interagire con altre persone in italiano. Prendiamo il caso di un medico formato in inglese: è un assurdo! Un medico avrà a che fare poi per tutta la vita con dei pazienti ai quali dovrà spiegare in italiano di che malattie soffrono e a quali cure dovranno sottoporsi! La pretesa di insegnare in inglese comporta una perdita in qualità e in comunicazione con la società, come se lo scienziato vivesse chiuso in laboratorio in compagnia soltanto di provette e colleghi stranieri. Tutto questo fa parte di un fanatismo straniero che si vede ormai quotidianamente in Italia.

E a chi teme che un provvedimento come quello di dichiarare costituzionalmente l’italiano lingua ufficiale del nostro Paese possa essere un danno per i dialetti locali, come ribatte?
Credo che questo oggi sia un discorso perdente. Cha danno può venire ai dialetti se ci si presenta all’Europa e al mondo con l’italiano come lingua ufficiale? Le lingue minoritarie, dal friulano al sardo, sono già protette dalla legge. Non vedo come si potrebbe andare oltre. Il dialetto, dove è usato e vitale, non ha bisogno di protezioni legislative. Il dialetto deve essere stimato per quello che è, una realtà importante, spesso con una ricca tradizione culturale. In Italia esistono delle letterature dialettali straordinarie, basti pensare a quella veneta, napoletana, siciliana, che non sono mai state in conflitto con quella italiana. Il più letto di tutti è sicuramente Goldoni, che scriveva sia in dialetto sia in italiano. Pensiamo anche a Pasolini, che è partito con il friulano, poi è passato al romanesco ed è approdato anche all’italiano. Non c’è opposizione tra lingua e dialetto, l’opposizione la si crea artificiosamente.

19 febbraio 2014

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