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Vladimiro Bottone: ”Con Vicarìa ho voluto dare a Napoli il grande romanzo ottocentesco che non ha mai avuto”

Nel suo nuovo romanzo “Vicarìa” (edito da Rizzoli), l’autore Vladimiro Bottone ci conduce nel cuore del quartiere più malfamato di Napoli, per mostrarci come l’ingiustizia e la sorte siano due presenze che si compenetrano...

Intervista allo scrittore Vladimiro Bottone, autore del nuovo romanzo Rizzoli “Vicarìa”: la cruda indagine sulla morte di un orfano, il cui segreto potrebbe destabilizzare le fondamenta dello Stato Borbonico

 
MILANO – Nel suo nuovo romanzo “Vicarìa” (edito da Rizzoli), l’autore Vladimiro Bottone ci conduce nel cuore del quartiere più malfamato di Napoli, per mostrarci come l’ingiustizia e la sorte siano due presenze che si compenetrano nelle vicende umane. Abbiamo rivolto qualche domanda all’autore sul suo progetto:

 

 
Come è nata l’idea di scrivere un romanzo ottocentesco di ambientazione napoletana?
Vicarìa nasce, come dovrebbero nascere i veri romanzi, da alcune ossessioni del suo autore. L’infanzia violata come suprema testimonianza del male che alligna fra gli uomini; la prossimità fianco a fianco di vivi e morti; l’impossibilità di fare vera giustizia; il tradimento come prova terribile e immancabile nell’esistenza di noi tutti, la casualità arbitra della vita ecc. Al di là di questo mi affascinava la sfida di dare a Napoli – una delle grandi metropoli ottocentesche insieme a Londra, Parigi, Pietroburgo – il romanzo che quelle grandi città avevano avuto e che la Napoli di primo Ottocento ancora aspettava.

La trama è ambientata nel quartiere Vicarìa, luogo temuto e malfamato. Cos’è cambiato secondo lei dal 1841 (anno di ambientazione della storia) al 2015?
Tutto e niente. In ampie zone della mia città all’autorità dello Stato si sostituisce ancora la legge non scritta del più forte. Una legge implacabile, che esegue con velocità, efficienza ed estrema durezza le proprie sentenze. Le stesse corruzione e incuria degli apparati pubblici, molto presenti nel romanzo, continuano a rappresentare un filo rosso fra la Napoli odierna e  quella di Vicarìa.
 
Il suo è un romanzo, cupo, amaro, dove nessuna giustizia sembra possibile. Crede che questo possa valere solo nella sua finzione letteraria o anche nella vita reale?
Per me è davvero emblematico che, nella Napoli ottocentesca, l’edificio della Vicarìa ospitasse sia il Tribunale penale che il luogo in cui si svolgevano le estrazioni del Lotto. L’intuizione del romanzo è questa, in fondo: che molto spesso la Giustizia finisca per essere amministrata con la stessa cecità, casualità e ingiustizia che governano un’estrazione a sorte come quella del Lotto. Non è assolutamente casuale che il Lotto costituisca uno snodo cruciale nella trama “gialla” del romanzo.
 
Ci parli del ruolo centrale che ha il piccolo Antimo, sventurato orfano al centro della vicenda. A cosa si è ispirato per delineare la sua storia e l’ossessione del protagonista Fiorilli?
Antimo è un orfano, un figlio di ignoti non meritevole di un cognome. All’inizio del romanzo ne viene presentato il tentativo di fuga da quel gigantesco ricovero per vecchi indigenti e infanzia abbandonata che era l’Albergo dei poveri, una delle più grandi costruzioni dell’epoca. Il suo tentativo di evasione finisce tragicamente. Nel suo corpo s’imbatte un funzionario della polizia borbonica, Gioacchino Fiorilli, non ancora contagiato dal cinismo che impera attorno a lui. Ecco: il corpo di Antimo, agli occhi di Fiorilli, è la rappresentazione visibile del male compiuto sull’infanzia e ha “la tremenda bellezza degli offesi”. È un corpo vulnerabile e vulnerato. Eppure nasconde, dentro di sé, un segreto così tremendo da poter mettere a repentaglio addirittura il funzionamento dello Stato borbonico. Ecco: era questa compresenza di purezza e male, fragilità e potenza che ha dato il “la” all’ispirazione del romanzo.  
 
 

 
9 febbraio 2015

 
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