Vita d’autore: 4 libri che la mettono in scena

21 Novembre 2025

Dal desiderio nascosto all'inferno domestico: come la letteratura trasforma l'esistenza in arte. Libri di autori come Ernaux e Mishima che parlano della vita.

Vita d'autore: 4 libri che la mettono in scena

La letteratura contemporanea si nutre sempre più avidamente della vita, trasformando l’esistenza individuale – sia essa intima, domestica o eccezionale – nel suo oggetto primario. Si dice che bisogna scrivere di ciò che si conosce, e spesso gli autori lo hanno fatto: biografie, autobiografie, scritture di pancia che s’ispirano alla propria vita per parte…

Il confine tra ciò che si è vissuto e ciò che si scrive si fa sempre più sottile e permeabile, offrendo al lettore una ricca galleria di esperienze umane filtrate attraverso la lente della narrazione.

Questa persistente tendenza a mettere il sé in pagina rivela un profondo e universale desiderio di comprendere e documentare la condizione umana.

I testi di cui parleremo oggi rappresentano quattro modi distinti, ma fondamentali, di affrontare questo rapporto tra vita e scrittura.

Vita propria

Troveremo opere che elevano l’esperienza intima e la malattia a un gesto di archeologia del ricordo, dove il corpo e il desiderio vengono indagati attraverso tracce e assenze fotografiche. Scopriremo poi il lato inaspettatamente umoristico e caotico della vita familiare, dove la routine e la gioventù ribelle si trasformano in un memoir esilarante e disarmante sulla genitorialità, infine l’intimo ricordo di se stessi: una lotta interiore per l’identità celata dietro una maschera.

Vita d’altri

E vedremo anche come un autore possa appropriarsi della biografia altrui, celebre e controversa, per tessere un ritratto tragicomico della vanità e della decadenza nell’esilio.

Questi quattro approcci, che spaziano dalla confessione diretta alla rielaborazione drammatica, dimostrano che la materia narrativa della vita può essere un gesto di auto-analisi brutale, un atto di umorismo difensivo o un’elegante operazione letteraria che, partendo dal fatto, ne svela l’essenza più profonda.

“Confessioni di una maschera” di Yukio Mishima

Confessioni di una maschera” (titolo originale “Kamen no Kokuhaku”)è il romanzo semi-autobiografico con cui Yukio Mishima (pseudonimo di Kimitake Hiraoka) si affermò, esplorando l’ossessivo conflitto tra l’identità interiore e la necessità di conformarsi. Il protagonista, Kochan, è costretto fin dalla tenera età a vivere celando la sua autentica identità e i suoi desideri inammissibili, in un Giappone imperiale prebellico e militarista dove le emozioni non hanno “simpatia per l’ordine fisso”.

Il nucleo del racconto è la strenua e solitaria lotta di Kochan per nascondere la sua omosessualità e la sua fascinazione per la morte e la violenza, considerati una “difetta” assoluta in una società ossessionata dalla correttezza ufficiale. Il titolo stesso allude al travestimento emotivo e sociale che egli è costretto a indossare: una maschera di normalità per passare inosservato.

Il romanzo segue Kochan dall’infanzia all’adolescenza, esplorando le sue prime scoperte erotiche (la celebre visione di San Sebastiano trafitto) e la sua ossessione per il sangue e l’agonismo. Per conquistare la normalità, Kochan simula vizi immaginari e si sforza di corteggiare la timida Sonoko, cercando di “volere l’altro sesso” e negando le sue inclinazioni più profonde.

Le pagine sono un’analisi intensa e psicologica delle esperienze cruciali che hanno portato Kochan a scoprire e a fare i conti con i propri desideri. Il testo intreccia sensualità e candore, esultanza e disperazione, offrendo un’inquietante confessione sulle angosce dell’identità. L’esito della lotta è la creazione di un io artificiale che, pur permettendogli di integrarsi, lo condanna a una vita di insopprimibile finzione, rendendo questo romanzo uno dei massimi classici sulla non conformità e l’auto-accettazione nella letteratura giapponese moderna.

“Una spia in esilio” di Alan Bennett

Una spia in esilio” (titolo originale “An Englishman Abroad”) di Alan Bennett è una commedia (tradotta anche come monologo teatrale) che offre un ritratto irresistibilmente comico, malinconico e tragicomico di Guy Burgess, uno dei membri del tristemente noto Cambridge Five, il gruppo di diplomatici e agenti dei servizi segreti britannici che trafugarono documenti top secret per i sovietici nel dopoguerra.

L’opera è ispirata a un aneddoto realmente accaduto: nel 1958, l’attrice inglese Coral Browne si recò a Mosca per recitare nell’allestimento di Amleto e in quell’occasione incontrò Guy Burgess, che viveva in un amaro e squallido esilio moscovita dopo la sua defezione.

Il fulcro del racconto è la conversazione tra Burgess e l’attrice. Nonostante la sua vita in Unione Sovietica sia squallida, il vanitoso Burgess, incapace di rassegnarsi, si aggrappa ostinatamente alla sua identità inglese e al suo gusto per l’eleganza. La sua paradossale richiesta a Coral Browne è di riportare a Londra le sue misure per farsi confezionare un abito su misura dal suo sarto di fiducia. Questo gesto, banale in apparenza, è in realtà un disperato tentativo di mantenere un legame con la sua vita passata e di negare la decadenza del suo esilio.

Bennett, maestro nel cogliere la sottile inquietudine dietro l’umorismo, non è interessato tanto allo spionaggio quanto ai pettegolezzi e alle miserie umane. Burgess, pur avendo tradito il suo Paese per un ideale politico, si rivela come una figura patetica, ossessionata dal gossip e dalla ricerca di una parvenza di dignità e riconoscimento sociale. Il racconto evidenzia come l’idealismo di figure come Blunt, Burgess e gli altri del “Five” si sia scontrato con la cruda realtà della Guerra Fredda, lasciandoli privi di illusioni e con solo il loro cinismo per cui votarsi.

“Vita tra i selvaggi” di Shirley Jackson

Vita tra i selvaggi” (titolo originale “Life among the savages”) è una raccolta di saggi umoristici e autobiografici in cui la celebre scrittrice di racconti horror e gotici, Shirley Jackson, documenta la sua caotica ma amorevole vita domestica nel Vermont. L’opera è una testimonianza esilarante e onesta della sua esistenza quotidiana come moglie di un critico letterario (Stanley Edgar Hyman) e madre di quattro figli (Laurence, Joanne, Sarah e Barry).

L’autrice ribalta l’immagine della casalinga perfetta, dipingendo la sua casa come un “inferno domestico”, dove l’ordine è un concetto estraneo e il caos regna sovrano. Jackson narra la sua frenetica routine, passata a destreggiarsi tra le richieste dei figli – descritti con affetto e ironia come dei “selvaggi” – un marito esigente, un cane e un numero imprecisato di gatti. La sua scrittura è un’ode all’inadeguatezza della massaia tradizionale, dimostrando come la differenza tra comico e inquietante sia spesso solo una questione di prospettiva.

Gli episodi raccontati spaziano dal tentativo di organizzare il trasloco al preparare un tardivo esame universitario per sé stessa, dal gestire una valanga di vestiti sporchi al barcamenarsi con bambini capricciosi o con influenze familiari inaspettate. La Jackson rivela il suo lato di scrittrice che non lavora reclusa in una torre d’avorio, ma che osserva il mondo dalla finestra pur essendo immersa in un turbine di pannolini e piatti da lavare.

Il libro è un esempio brillante di come l’ordinario, per quanto frenetico e spesso frustrante, possa essere trasformato in letteratura. Jackson usa la sua acuta ironia per fare luce sulle gioie e le assurdità della famiglia allargata americana degli anni ’50, un ritratto che si rivela inaspettatamente profondo e universale.

“L’uso della foto” di Annie Ernaux

L’uso della foto” è un’opera unica che trascende i confini del tradizionale racconto, presentando un’indagine congiunta sul desiderio, la perdita e la distanza tra ciò che viene vissuto e ciò che resta nella memoria. Questo volume è il risultato della relazione amorosa tra la scrittrice Annie Ernaux e il fotografo Marc Marie, durata per tutto il 2003.

Al centro del progetto c’è una pratica singolare e intima: dopo i loro incontri sessuali, la coppia non fotografa i corpi, ma il paesaggio che il sesso ha lasciato dietro di sé. Le immagini catturano oggetti, dettagli e tracce: vestiti sul pavimento, scarpe rovesciate, lenzuola sgualcite, la mappa sbiadita di un’intimità appena consumata. Questi scatti, nati in pellicola e in attesa di sviluppo, diventano i “segni dell’accaduto”.

Per Ernaux, l’anno della relazione è cruciale e segnato da una malattia (l’intervento per un tumore), un aspetto che resta invisibile nelle fotografie ma è profondamente presente nel suo corpo e, di conseguenza, nella sua scrittura. La scelta di non mostrare i corpi o la malattia trasforma le foto in uno spazio vuoto, una “scena altra” che acquisisce significato solo quando accompagnata dalle sue parole.

Ernaux seleziona alcune di queste immagini e vi aggiunge un testo lirico e meditato, senza accennare direttamente alle foto. Questo cerimoniale domestico di scelta e scrittura trasforma gli scatti muti in una riflessione sulla fragilità del ricordo, sulla solitudine e sulla consapevolezza che, anche le tracce più private, sono destinate a mutare nella memoria dei lettori. L’opera diventa così un tributo alla forza dirompente del desiderio, documentato non attraverso ciò che si vede, ma attraverso ciò che resta come assenza significativa.

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