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Valerio Aiolli ama ”raccontare un personaggio alle prese con una situazione complicata che lo costringe a fare i conti con gli altri e con se stesso come mai aveva fatto prima in vita sua”

Valerio Aiolli vive a Firenze e dal 1995 a oggi ha scritto diverse opere di narrativa, alcune dei quali hanno conseguito premi letterari importanti. Ha esordito con una raccolta di racconti, Male ai piedi...

Valerio Aiolli vive a Firenze e dal 1995 a oggi ha scritto diverse opere di narrativa, alcune dei quali hanno conseguito premi letterari importanti. Ha esordito con una raccolta di racconti, Male ai piedi, Cesati 1995, e nel 1999 ha pubblicato il suo primo romanzo, Io e mio fratello, e/o 1999, seguito da Luce profuga, e/o 2001, A rotta di collo, e/o 2002, Fuori tempo, Rizzoli 2004, Ali di sabbia, Alet 2007. Il suo ultimo romanzo è Il sonnambulo, Gaffi 2014.

 

La prima cosa che le chiedo è se negli anni Novanta, quando lei si è affacciato sul vasto mare della narrativa italiana, fosse più facile pubblicare. Mi riferisco alla ricerca di un editore non solo non a pagamento, ma anche in grado di promuovere l’opera dell’autore. Certo, in un mondo perfetto non dovremmo preoccuparci del marketing e il libro non sarebbe considerato una merce, ma credo che lei converrà con me che l’editore è un imprenditore e che per molte ragioni oggi difficilmente scommette su uno sconosciuto. Ci faccia caso: quasi tutti gli autori che oggi riescono a farsi leggere (non voglio usare la parola vendono) sono in qualche misura già dentro quel mondo: giornalisti della carta stampata, della radio o della televisione, editor, sceneggiatori, conduttori di trasmissioni culturali. Che ne pensa?

Non so se allora fosse più facile pubblicare. Il mio primo libro di racconti ricevette più di trenta rifiuti, pur arrivando poi in finale al Premio Assisi per inediti (da cui oltre a me sono passati anche Giampaolo Simi e Giuseppe Munforte: tanto per dire che era un premio serio). Io lo volli pubblicare, con un editore che reputavo e reputo per bene, contribuendo alle spese. Non lo rifarei e non lo consiglierei, ma tant’è. Era quindi abbastanza difficile anche allora. La differenza che percepisco è che allora gli editori, pur puntando com’è ovvio a vendere i loro libri, avevano allo stesso tempo un altro polo ideale a cui rivolgersi: l’idea del catalogo. Si prendeva cioè un autore, si credeva in lui, lo si faceva crescere, lo si aspettava anche se i suoi libri non vendevano un granché, lo si stimolava, lo si coccolava, in attesa di una fioritura anche commerciale che chissà se e quando sarebbe arrivata. Oggi l’idea di fare catalogo è sparita. Ha prevalso il profitto a breve termine, il qui e ora. E certo, quindi, è aumentata l’inflazione di personaggi già noti a cui accennava lei: un modo per guadagnare in fretta e senza sforzo. Oppure puntare su nomi nuovi ma solo come possibili casi letterari, o esplodono alla svelta o si chiude loro le porte in faccia per il secondo o terzo libro. In questo modo sta calando vertiginosamente la qualità di ciò che le case editrici riescono a offrire.

 

Lei a volte scrive storie più intimiste, più centrate sulla dimensione privata dei personaggi, a volte storie in cui il tema sociale sembra predominante. Sono consapevole della imprecisione delle schematizzazioni che, nello sforzo di semplificare, lasciano sempre in ombra qualche aspetto. Ma, fatta questa doverosa premessa, si riconosce nella mia affermazione? E in generale, l’urgenza di scrivere una storia da dove nasce, per Valerio Aiolli?

In tutti i romanzi che ho pubblicato, tranne uno, a muovermi è sempre stata l’idea di raccontare un personaggio alle prese con una situazione complicata che lo costringe a fare i conti con gli altri e con se stesso come mai aveva fatto prima in vita sua. Guardandoli a posteriori, credo che ognuno dei protagonisti che ho raccontato nei miei romanzi sia una parte (o la proiezione di una parte) di me: forse la scintilla deriva da lì. Il bambino di Io e mio fratello è la versione esacerbata di me bambino (alle prese con un lutto e una crisi familiare), Pietro di Luce profuga lo è del me quarantenne (alle prese con gli attriti dell’immigrazione in un piccolo contesto produttivo problematico), Elio di A rotta di collo è il trentenne svagato che avrei desiderato essere stato (alle prese con lo sfarinamento di una società in evoluzione e un ambiguo passato familiare che si svela), Carlo di Fuori tempo l’anziano ipercontrollato in cui, chissà, temevo di trasformarmi (alle prese con un amore contrastato nella senilità), Leonardo del Sonnambulo è il manager corrotto che ho evitato di diventare (alle prese col crollo del suo mondo). In tutti questi casi il contesto sociale – che pure ci tengo a descrivere al meglio delle mie possibilità – è qualcosa che preme da fuori sul personaggio, qualcosa che non è il centro tematico del libro. Detto questo, nel momento stesso in cui mi metto a scrivere, quella “parte di me” diventa altro: un personaggio che si muove in autonomia e cerca le proprie risposte nel caos del mondo. Caso a parte è Ali di sabbia, dove volevo raccontare un periodo (la colonizzazione italiana della Libia) e un sogno (il volo): quello è un romanzo corale, le vere protagoniste sono la Storia nel suo farsi e l’immaginazione nel suo diventare a poco a poco concretezza.

 

È approdato alla scrittura, o meglio alla pubblicazione, abbastanza presto. Era un progetto antico? E si può parlare di progetto o si tratta del risultato del combinarsi di fattori casuali che hanno favorito la realizzazione di un’aspirazione che non era ancora diventata progetto definito?

Se non teniamo conto di Male ai piedi, che come ho detto è stata una pubblicazione con contributo delle spese, il mio primo romanzo è uscito quando avevo 38 anni. La maggior parte dei miei colleghi, in quella fase, aveva pubblicato il primo libro intorno ai 30. Io intorno ai 30 avevo cominciato a scrivere. Cioè: scribacchiare avevo sempre scribacchiato, ma dai 30-31 anni in poi cominciai davvero a scrivere con l’idea di poter un giorno essere letto. Furono anni di apprendistato, con tante false piste seguite e la faticosa esperienza di arrivare a trovare la mia voce. Quindi direi che sì, la pubblicazione è giunta come coronamento di un progetto preciso cominciato qualche anno prima.

 

Cosa le piace leggere? Ci sono autori dai quali si è sentito influenzato?

Fra i classici prediligo Flaubert, Tolstoj, Cechov, il primo Joyce, Hemingway. Poi il Simenon dei romanzi non-Maigret, Graham Greene, Philip Roth, Carver, la Munro. Fra gli italiani la pulizia e precisione e inventiva di Calvino, ma anche la capacità narrativa di Arpino, per esempio. Non so quali di questi, e delle decine e decine di altri autori che amo, mi abbiano influenzato di più. Credo di ispirarmi a ciascuno di loro, di assorbirne le tecniche, di valutare istintivamente il loro modo di affrontare i temi della vita per tradurli in narrazione, e provare a trasformarlo per farlo mio.

 

Non ho ancora letto Il sonnambulo, il suo ultimo romanzo, ma mi riprometto di farlo quest’estate. Stando alle informazioni facilmente reperibili in rete, si tratta della storia, ambientata nel 1992, di un quarantenne alle prese con le sue ambizioni e i problemi della sua vita privata. Posso chiederle di questa lunga incubazione (sette anni dal romanzo precedente) e di come nasce la voglia di raccontare quegli anni, dei quali la società italiana attuale è figlia? 

I sette anni sono figli un po’ del caso. Il romanzo era finito da tempo, poi alterne vicende editoriali lo hanno portato di volta in volta vicino all’uno o all’altro editore, fin quando nel 2013 l’entusiasmo della Gaffi ha avuto la meglio. Da lì un altro anno di attesa, fino alla pubblicazione a gennaio. La voglia di raccontare quegli anni nacque… in quegli anni. In presa diretta, nel 1992, mi resi conto del crollo che, con tangentopoli e poi la fine della Prima repubblica, stava subendo un intero mondo legato a certe logiche di potere. I giornali raccontavano da fuori quel crollo, a me venne la voglia di descriverlo dall’interno, dal punto di vista di qualcuno che ci si era trovato in mezzo perché non si poteva essere che così, e che adesso era costretto a passare in rassegna tutto il proprio vissuto per provare a trovare una via d’uscita. Così, già nel 1992 schizzai il protagonista e i personaggi principali e buttai giù una trama. Ma poi, quando provai a scriverlo, mi accorsi che ero troppo vicino ai fatti, che non ero ancora pronto. Solo intorno al 2007 mi resi conto che era arrivato il momento giusto: potevo far muovere liberamente i miei personaggi sullo sfondo di quel crollo imminente senza sentirli più troppo condizionati, come se davvero vivessero in quel momento lì. Allora ho potuto scriverlo, e finirlo.

 

Trascorreranno altri sette anni prima di ritrovare un suo romanzo in libreria? Sta lavorando a qualcosa in particolare?

Spero di no! (per i sette anni). Sì, ho un romanzo breve in avanzata fase di lavorazione, ma al momento non ho idea di quando arriverà in libreria. Poi scrivo racconti, che vengono pubblicati di quando in quando su qualche rivista.

 

Grazie per il suo tempo e le sue risposte.

Grazie a lei!

Rosalia Messina

19 luglio 2014
 
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