Sei qui: Home » Libri » Valentina Barile, “L’irrequietezza non è la condanna ma la salvezza dell’uomo”

Valentina Barile, “L’irrequietezza non è la condanna ma la salvezza dell’uomo”

Valentina Barile ha parlato del suo viaggio per l'Appia in "#mineviandanti. Sull'Appia Antica". Abbiamo intervistato l'autrice. Ecco cosa ci ha raccontato

MILANO – C’è chi parte per svagarsi, chi per salvarsi, chi per fuggire dalla guerra, chi per trovare lavoro, chi per scappare dalla relazione sbagliata, chi per incontrare l’amore della sua vita. In tanti partono anche per una sorta di irrequietezza dalla quale non è possibile evadere restando nel posto in cui si è nati o in cui si vive da tanti anni. Un’irrequietezza sana, che è curiosità e voglia di sapere e di vivere. Ed è stata proprio questa sensazione a spingere Valentina Barile a partire per percorrere la via Appia, sul tracciato indicato dal maestro Paolo Rumiz in “Appia” (Feltrinelli 2016). Di questo viaggio Valentina ha parlato nel suo libro “#mineviandanti. Sull’Appia Antica“. Abbiamo intervistato l’autrice. Ecco cosa ci ha raccontato.

Partire per raggiungere la consapevolezza. È per questo che ami viaggiare?

Guarda, la consapevolezza non si raggiunge dopo un viaggio, o dopo un solo viaggio. O, perlomeno, per me è così. Ti impegni a costruire la consapevolezza di te stesso – se è quello che intendi – senza neppure rendertene conto. È qualcosa, la consapevolezza, che senti dopo, non mentre. Cioè, tu la costruisci e non lo sai. Ad ogni modo, amo viaggiare perché non amo stare ferma in un posto per tanto tempo. Ho bisogno di aria nuova ogni tanto, e di ricambiare aria. Bruce Chatwin sintetizza una tesi che io condivido appieno: l’irrequietezza è la salvezza dell’uomo”. Ed è così, lui dice che l’impulso a muoversi è inseparabile dal sistema nervoso centrale, per cui quando esso viene bloccato da condizioni di vita sedentarie trova sfogo nella violenza, nell’avidità, nella ricerca di prestigio o nella smania del nuovo.

Cos’ha voluto dire per te percorrere a piedi la via Appia? È la via laica raccontata da Rumiz o ha per te un altro significato?

Ho percorso la via Appia, da Roma a Brindisi, in macchina, infilandoci di mezzo un tratto in bici e uno a piedi. Mi mancava il tempo per camminarla tutta a piedi. C’è bisogno di un mese suppergiù, e io e la mia compagna di viaggio, Federica, non ne avevamo tanto. Camminare a piedi vuol dire che la strada ti si impregna in modo istantaneo, passo dopo passo; li faccio dei cammini a piedi per cui me ne rendo conto. Però, questo non vuol dire che fare un viaggio con l’uso di altri mezzi, come una macchina vecchia, o una corriera, o ancora un treno, ti faccia essere meno sensibile a quello che hai intorno. Per niente. Se percepisci il mondo, hai più o meno le stesse sensazioni anche quando ci sono dei filtri, in questo caso l’uso di un mezzo gommato. La via Appia è una via laica, sì. E vivaddio che ci possiamo permettere di avere cammini laici, senza integralismi spiritualistici. Non parte solo chi sente di avere un Dio! E, forse, chi sente di non averlo si mette in viaggio come un bambino che muove i primi passi senza l’aiuto del girello.

Com’è nata l’idea di scrivere questo libro?

L’idea di un diario di viaggio è venuta dopo il viaggio stesso, ma c’è un insieme di cose che mi ha portato in questa direzione. Le mie esperienze di lavoro mi hanno fatto conoscere Federica, poi Alessandro Scillitani (il regista de “Il cammino dell’Appia antica”), che ha fatto il viaggio pionieristico con Paolo Rumiz, Irene Zambon e Riccardo Carnovalini. E poi uno stage con Antonio Politano, nella cornice del Festival della Letteratura di Viaggio per cui dovevo preparare un reportage di viaggio, appunto. È stato questo il momento in cui ho deciso di partire per la via Appia portando con me, oltre che Federica, il libro “Appia” di Paolo Rumiz. Durante il viaggio, ho incontrato un editore che già conoscevo, che mi ha proposto di scrivere, ma io ero in blocco da un po’ di mesi perché cercavo una identità letteraria. Al ritorno, poi, ero così imbevuta di strada che mi sono chiusa in casa – era piena estate – per dieci giorni e ho rifatto il viaggio su un foglio bianco nella penombra della mia stanza.

Quali sono i tuoi libri di viaggio preferiti? C’è qualcuno che ti ha ispirata oltre a Paolo Rumiz?

Il primo diario di viaggio che ho letto è On the road di Jack Kerouac; le scorribande e i deliri di lui e dei suoi amici in giro per l’America mi hanno davvero inguaiato, nell’accezione più bella che possa avere il verbo inguaiare. Sono pregna di Tabucchi, di Terzani, di John Fante. Di Banana Yoshimoto, di Vinicio Capossela. E di altri che adesso, proprio in questo momento, non mi vengono in mente. Paolo Rumiz rappresenta per me la migliore penna del giornalismo letterario italiano. Una penna umile, asciutta, che si lascia guidare dai passi che si allontanano da casa. Gli sarò sempre grata per avermi dedicato del tempo, per aver preso per mano il mio diario e averlo accompagnato su strada, la mia.

© Riproduzione Riservata