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”Tre donne forti” di Marie Ndyae. Viaggi di Donne fra Africa ed Europa

Gli aeroporti sono luoghi di transito, tangibili crocevia fra mondi, culture e popoli, spazi affollati o deserti, da percorrere per partire o tornare, per incominciare o per portare a termine un’impresa...

Gli aeroporti sono luoghi di transito, tangibili crocevia fra mondi, culture e popoli, spazi affollati o deserti, da percorrere per partire o tornare, per incominciare o per portare a termine un’impresa.

Ne ho attraversato i corridoi in corsa, per non perdere l’ultima chiamata del volo che mi attendeva, trascinando un trolley rosso, tatuato dagli artigli della memoria; oppure, ho rallentato i ritmi di cuore e membra nelle lunghe ore di attesa, durante uno scalo: tempo rubato o regalato, tempo per fare nulla o per immaginare tutto.

Tempo per scegliere un libro e iniziare a leggerlo.

 

Il mio ultimo acquisto, all’aeroporto di Fiumicino, è stato il celebre romanzo, tradotto in 26 paesi, della scrittrice franco-senegalese Marie Ndiaye, intitolato “Tre donne forti”.

Non aspettatevi eroine armate, crisalidi in gusci di corazza ferrea, pronte a fendere l’aria brandendo una spada grondante del sangue del nemico, novelle Giovanna o Giuditta animate da troppa fede o da troppo poca.

Non aspettatevi militanti senza paura, con gli occhi intrisi di sfida e le labbra contratte in un urlo di protesta, seguaci ardite sulla scia di quante, prima di loro, vinsero o persero, e, nel fragore della lotta, invecchiarono con caparbietà o immolarono le loro carni ancora lisce e compatte di fanciulle.

“Tre donne forti” racconta un mondo misterioso, sospeso fra l’Africa e l’Europa, in cui si succedono, incuranti del paradosso, pensieri che volteggiano senza sosta nello spazio esiguo di pochi passi e molteplici parentesi, caratteristiche, queste ultime, dello stile della Ndiaye,  e stati di immobilità della coscienza, pur nel corso di viaggi infiniti.

 

In cosa consiste tale forza, dunque? Nella strenua sopportazione, nella sagace resilienza, nella stoica attesa, nella mancata resa, nonostante tutto e tutti.

Donne con un “demone seduto sul grembo” e sovrastate da angeli troppo lontani, che ripetono e ricordano a se stesse di esserci ed esistere, dietro lo schermo delle ciglia abbassate, dietro il silenzio di una bocca serrata, dietro la coltre di un vestito verde tiglio, sempre lo stesso, scudo di un’identità ferita.

 

In verità non rimpiangeva niente, completamente immersa nella realtà di un presente atroce ma che poteva prendere forma con chiarezza nella sua mente, che poteva essere sottoposto ad una riflessione in cui entravano al tempo stesso pragmatismo ed orgoglio […] e che, soprattutto, lei immaginava transitorio, convinta com’era che quel periodo di sofferenza avrebbe avuto una fine e che lei non ne sarebbe stata di certo ripagata […]ma molto semplicemente sarebbe passata ad altro, a qualcosa che ancora ignorava ma aveva la curiosità di conoscere”.

 

Emma Fenu

 

11 marzo 2015

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