“Tennis Partner” un libro che parla di amicizia maschile

10 Novembre 2025

"Tennis Partner" è un memoir che parla di amicizia maschile, un libro acclamato da Kirkus Reviews e New Yorker. Pronti a scoprire di più?

“Tennis Partner” un libro che parla di amicizia maschile

Con “Tennis Partner” Abraham Verghese torna a un registro che gli è congeniale: la non-fiction medico-esistenziale. Dopo il successo romanzesco di “La porta delle lacrime” e, più di recente, de “Il patto dell’acqua“, qui l’autore firma un memoir crudo e pudico insieme, incentrato su un’amicizia maschile, sul potere (e i limiti) della cura e su una dipendenza che chiede sempre un ultimo “scambio” prima di crollare. Non è un libro “sul tennis” — anche se il tennis c’è, eccome — ma su cosa accade quando due vite si regolano su un ritmo a due: servizio, risposta, respiro.

Pubblicato originariamente alla fine degli anni Novanta, “Tennis Partner” è ambientato a El Paso (Texas), dove Verghese, medico e docente, si trasferisce con la famiglia per un nuovo incarico ospedaliero; lì conosce David Smith, specializzando brillante, ex tennista quasi professionista, e soprattutto un uomo in lotta con una dipendenza da cocaina che non assomiglia a nessuna patologia “gestibile” in reparto.

È l’inizio di una relazione intensa — partire a giocare insieme, parlare, confidarsi — che progressivamente diventa la spina dorsale del libro e il suo dilemma morale: dov’è il confine tra il medico, l’amico e il mentore? (Kirkus ricostruisce con precisione contesto e impianto del memoir, ricordando anche che parti del testo erano apparse in precedenza sul New Yorker).

Di cosa parla?

La superficie è limpida: Verghese arriva in una città “di confine”, si separa dalle certezze della precedente vita accademica e trova, sui campi affacciati sul deserto, una nuova routine; David gli fa da sparring partner, poi entra in reparto come specializzando; i due condividono ore di scambi, autostrade notturne, casi clinici e discussioni sulla bellezza (e la brutalità) del corpo malato.

Ma sotto scorre altro: la dipendenza, che non ha niente del “male romantico”, e un’educazione sentimentale dell’amicizia in cui due uomini provano a dirsi fragilità senza sentirsi meno uomini. Il memoir segue questa doppia corrente: progressi e ricadute, ricoveri e dimissioni, promesse e bugie.

Kirkus sottolinea come il libro sia, prima di tutto, un’indagine intima sugli “obblighi della cura” e sulla capacità di Verghese di tenere insieme compassione clinica e autocritica: una continua vigilanza su di sé, uno degli aspetti che più viene lodato nella recensione.

Tennis come grammatica morale

Il tennis qui non è semplicemente metafora elegante; è una grammatica. C’è la disciplina del gesto — allenare il dritto, ripetere il rovescio — che risuona con la disciplina medica: anamnesi, diagnosi, terapia, follow-up. C’è il linguaggio della fiducia: reggere uno scambio lungo significa accettare che l’altro possa sbagliare e che tu debba dargli il tempo di rientrare nello scambio.

E c’è soprattutto l’etica dell’“errore non come colpa, ma come dato della realtà”, che Verghese trasferisce dalla clinica al campo e viceversa. Il risultato è un libro in cui lo sport, lontanissimo da ogni retorica di vittoria, diventa uno spazio per nominare ciò che nell’amicizia maschile spesso resta inarticolato: la dipendenza dall’altro, la paura di deludere, l’invidia del talento, il bisogno di perdono.

Un memoir medico, non un romanzo “motivazionale”

La tentazione, con “Tennis Partner”, è di archiviarlo come “storia edificante sulla rinascita”. Ma Verghese rifiuta il dispositivo della redenzione: la dipendenza non si “vince”, la si attraversa ciclicamente; l’amico non si “salva”, lo si accompagna finché è possibile. Kirkus lo scrive chiaramente: è un memoir “di perdita e amicizia”, che evita il sentimentalismo e tiene la prosa sulla soglia giusta tra empatia e controllo.

Questa scelta ha due conseguenze narrative. La prima: l’io narrante non si mette al riparo. Quando sbaglia, quando confonde i ruoli, quando il bisogno di essere utile lo espone a una forma sottile di onnipotenza salvifica, Verghese lo dice. La seconda: il lettore non viene coccolato.

Le parentesi tecniche — l’addestramento clinico, la farmacologia della cocaina, l’andamento delle ricadute — restano parte integrante del racconto. La letteratura “medica”, qui, non è arredata da metafore: espone procedure, tempi, frustrazioni.

Asciuttezza, pudore, precisione

Frasi che non cercano effetti speciali

Lo stile è quello già conosciuto in Cutting for Stone: frase limpida, immagine precisa, pochi ornamenti. Ma laddove nel romanzo del 2009 la lingua si apriva spesso a spazi epici (la Storia, l’Etiopia, la diaspora), qui è tutta ritratta nel corpo a corpo. È una prosa che sa reggere i silenzi: quelli del reparto di notte, quelli del campo da tennis alle sette del mattino, quelli tra due uomini che si vogliono bene ma non sanno come dirlo.

Kirkus insiste su quest’aria di “autocontrollo emotivo” come punto di forza e a volte di rischio: il rischio è quello di apparire troppo trattenuti proprio quando l’abisso si apre; la forza è che, alla lunga, la misura vince sulle manipolazioni facili.

Il ritmo: clinico e sportivo

Il libro alterna capitoli brevi e mossi — come scambi rapidi a rete — a capitoli più lenti, in cui Verghese ragiona sul senso della cura e sul suo fallimento. Il “montaggio” è pertinente: non si ha mai la sensazione che la parte clinica fagociti il tennis, o che il tennis alibi la clinica. È un equilibrio laborioso, costruito per sottrazione.

Che cosa dice sull’amicizia maschile

Complicità, dipendenza, potere

Il cpunto focale del libro è questo. “Tennis Partner” non racconta soltanto una relazione tra pari; racconta un rapporto potenzialmente sbilanciato: da una parte il medico senior, dall’altra il giovane in formazione, per di più dipendente. Questo sbilanciamento, che altrove resterebbe sotto traccia, qui è materia di confessione: il potere c’è, e pesa.

Quando l’amicizia entra nel territorio della terapia, chi protegge chi? Verghese non finge risposte. Si espone ai sensi di colpa e, anziché neutralizzarli, ci lavora addosso: era davvero possibile “salvare” David? O l’idea stessa di salvezza, in certi casi, è una mitologia narcisistica di chi cura?

Kirkus valorizza il fatto che il memoir non si pieghi al “lieto fine obbligatorio”, ricordando al lettore che si tratta di un libro “sulla perdita, oltre che sull’amicizia”, e che proprio per questo non tradisce l’esperienza reale della dipendenza.

Mascolinità senza corazze

C’è anche un discorso, implicito ma netto, sulla mascolinità. “Tennis Partner” mostra due uomini che si scelgono, che si danno appuntamento ogni giorno, che legano il proprio umore al timing delle partite. Il modo in cui Verghese mette in pagina questa vicinanza è prezioso: elimina l’imbarazzo dal prendersi cura, non erotizza il contatto, ma neppure lo neutralizza in “sportività”. È un’amicizia fisica — nei gesti, nel fiato corto, nella doccia dello spogliatoio — che non teme la tenerezza.

Ricezione critica

Alla pubblicazione, il libro ha attirato attenzione trasversale proprio per la sua natura ibrida — memoir medico e romanzo d’amicizia. Kirkus, in particolare, firmò una recensione calda e molto circostanziata, sottolineando l’onestà del narratore, lo sguardo vigile sui limiti del ruolo medico e la scelta di non piegare il racconto a un esito consolatorio; la stessa scheda ricorda la cornice editoriale (uscita in hardback a fine anni Novanta e materiale apparso sul New Yorker).

Oggi, a distanza di anni e con Verghese divenuto un autore planetario, “Tennis Partner” si legge come un tassello decisivo della sua “autobiografia intellettuale”: la prosa chirurgica nasce qui, la sua visione della medicina come pratica “relazionale” nasce qui, e qui si mette a fuoco un tema che tornerà in tutta la sua narrativa — l’idea che i corpi, prima di essere casi clinici, sono storie che chiedono di essere ascoltate fino in fondo.

Confronto con gli altri libri di Verghese

Con “Cutting for Stone”

Il romanzo del 2009 è un grande affresco: famiglie, continenti, rivoluzioni, due gemelli chirurghi che attraversano l’Etiopia e gli Stati Uniti. “Tennis Partner” è l’esatto contrario: due uomini, un ospedale di frontiera, un campo da tennis, un deserto. Se nel romanzo la chirurgia e l’anatomia diventano metafore larghe dell’“aggiustare” il mondo, nel memoir sono mestieri che si fermano davanti a un limite: non tutto si ripara, non tutto si sutura. Lo stile, però, è coerente: precisione, controllo del pathos, attenzione ossessiva ai dettagli che rivelano.

Per il lettore che ha scoperto Verghese con Il patto dell’acqua, “Tennis Partner” offrirà un contrappunto più asciutto e privato: meno epopea, più “camera di decompressione” in cui si sente il peso specifico delle scelte mediche e personali.

Con la saggistica medica di area anglosassone

Il libro dialoga alla pari con la non-fiction sanitaria di Atul Gawande o di Oliver Sacks, ma con una differenza decisiva: in Verghese non c’è il caso clinico “esemplare” da trasformare in parabola. C’è un’amicizia che non funziona secondo schemi didattici e un medico che non riesce a “fare scuola” con la vita di un altro. Anche qui, come notano i recensori di Kirkus, la forza del libro sta nella resistenza alla lezioncina morale.

Temi forti

Dipendenza

Verghese non medicalizza la dipendenza per addomesticarla; la mostra nella sua logica spietata, nei suoi compromessi quotidiani. La leggiamo negli orari che saltano, nel linguaggio che si fa evasivo, nel corpo che cambia. Il memoir è una guida preziosa per capire come si può stare accanto a chi ricade: non con sermoni, ma con una presenza costante e, a volte, con l’accettazione del proprio limite.

Cura e potere

Ogni gesto di cura porta con sé una quota di potere. “Tennis Partner” lo mette in scena senza asterischi: il potere di firmare una cartella clinica, di “dare un second chance”, di scrivere una lettera per una fellowship, di decidere fino a quando aiutare e quando fermarsi. Che cosa resta del medico quando l’amico non ce la fa? Qui Verghese risponde con la sola cosa che la scrittura può offrire: un resoconto lucido, che tenga insieme dignità e disincanto.

Migrazione e identità

Non è un tema in primo piano, eppure c’è: l’autore, nato in Etiopia da genitori indiani e formatosi in India e negli Stati Uniti, vive El Paso come un nuovo passaggio di identità. La città di confine è lo spazio ideale per raccontare le zone grigie — legali, economiche, emotive — in cui si muove chi cura e chi è curato.

Lo sguardo sulle professioni sanitarie

The “Tennis Partner” è anche un libro sul lavoro in ospedale. Turni, burnout, carico emotivo, errori potenziali, fragilità degli stessi operatori sanitari: Verghese porta dentro il memoir tutto ciò che spesso si preferisce binarizzare — “medici forti/pazienti fragili”. L’idea di “competenze relazionali” non è un capitolo di manuale, ma una pratica quotidiana: saper ascoltare il collega, sapere quando il collega è a rischio, sapere quando la vita privata sta erodendo la soglia di vigilanza professionale.

Kirkus evidenzia che il libro tiene insieme questi piani senza scadere nella memorialistica “di reparto” (quella che raccoglie casi bizzarri e li trasforma in curiosità). Qui il reparto serve a capire un’amicizia e un fallimento, non il contrario.

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