Gli insulti sono come gli incantesimi, capaci di abbassare l'autostima di una persona e toglierle l'onore che le è dovuto, per questo San Tommaso li considerava peccati mortali. È uno degli insegnamenti di Vito Tartamella, caporedattore di Focus...
Il caporedattore di Focus Vito Tartamella sarà domani a Scriba Festival dove terrà una lezione sugli insulti, argomento cui ha dedicato un libro e un blog. Con lui abbiamo parlato di divulgazione scientifica, di giornalismo e libri
MILANO – Gli insulti sono come gli incantesimi, capaci di abbassare l’autostima di una persona e toglierle l’onore che le è dovuto, per questo San Tommaso li considerava peccati mortali. È uno degli insegnamenti di Vito Tartamella, caporedattore di Focus, che domani a Scriba Festival terrà insieme al semiologo Paolo Fabbri una lezione sulle “parole che feriscono”, argomento di cui è un vero esperto. Il giornalista ci parla di “Parolacce”, titolo di un suo libro e del blog da lui curato, di divulgazione scientifica, giornalismo e libri.
A Scriba Festival lei terrà una lezione sugli “insulti, le parole che feriscono”, argomento cui ha anche dedicato un libro, “Parolacce”, e un blog dallo stesso titolo. Può anticiparci qualcosa del suo intervento?
Gli insulti sono parole magiche. Quando li pronunciamo, non ci limitiamo a sfogare le nostre emozioni negative (odio, disprezzo).
Ma compiamo atti concreti, con effetti tangibili: emarginiamo qualcuno, facendolo sentire (in vari modi) “anormale”. Con una parola insultante, abbassiamo l’autostima di un’altra persona.
San Tommaso diceva infatti che l’insulto è un peccato mortale perché priva un altro uomo dell’onore che gli è dovuto.
Ecco perché, come tutti gli incantesimi, gli insulti andrebbero usati con molta cautela. Certo, l’ideale sarebbe non insultare affatto, ma è un ideale utopico: come pretendere di eliminare la violenza dalla faccia della terra. Gli insulti non sono nati con le risse televisive o negli stadi: sono antichi quanto l’uomo, essendo presenti già nei geroglifici egizi.
Perché sono un’invenzione straordinaria: sostituiscono l’aggressione fisica. Invece di scagliarti una pietra, ti lancio un insulto (anche se a volte un insulto può far più male di una pietra perché lascia ferite più profonde).
Si stima che nel nostro vocabolario ci siano 2.800 espressioni insultanti: ma potenzialmente qualsiasi parola può diventare un insulto se detta con spirito spregiativo, offensivo, emarginante. E si può insultare un’altra persona non solo a parole, ma anche a gesti. Come in tutte le espressioni umane, c’è una grande varietà e creatività anche in questo campo.
Tanto che gli insulti, oltre ad animare le risse, possono fare spettacolo: le gare di freestyle rap, in cui due cantanti si affrontano a suon di insulti in rima a ritmo di musica, ne sono un esempio (che ha radici antichissime: già i contadini latini facevano manifestazioni simili).
Può dirci come sono nati il libro e il blog?
Il libro è nato d’estate: ero in spiaggia, stavo sfogliando una rivista, e ho visto un articolo sulle parolacce. Mi ha colpito la scelta dell’argomento, che trovai geniale. Ma l’articolo mi lasciò deluso: mi aveva acceso tante curiosità che erano rimaste insoddisfatte. Così, tornato a casa, ho iniziato a fare una ricerca sull’argomento. Non ho trovato un libro sull’argomento, e allora ho iniziato a indagare per conto mio. Prima con l’idea di scrivere un articolo su Focus, poi un’inchiesta, e poi, quando il materiale che avevo raccolto era diventato enorme, un libro. E così ho fatto. E’ stato tanto faticoso quanto stimolante, perché ho dovuto raccogliere le ricerche sparse in tanti campi del sapere: psicologia, sociologia, letteratura, medicina, giurisprudenza, linguistica…
Il blog è stato la naturale conseguenza del libro: mi erano rimasti tanti filoni da esplorare, e volevo instaurare un rapporto coi lettori, che è sempre molto stimolante. Attraverso il blog ho scoperto molti altri che fanno ricerche in questo campo, anche all’estero: università francesi e brasiliane mi hanno invitato a tenere relazioni su questo tema, e sono nati scambi molto interessanti.
Su Focus, di cui lei è caporedattore, parlate di scienza con un taglio divulgativo, rivolto al grande pubblico, cosa che in Italia è abbastanza rara. Perché secondo lei?
Per molte ragioni. Innanzitutto per una generale impreparazione: le ultime statistiche dell’Ocse hanno rivelato che l’Italia è uno dei fanalini di coda nel mondo per preparazione scientifica (ma anche per le competenze alfabetiche in genere).
Le responsabilità di questo scenario sono soprattutto politiche: si investe sempre meno nell’istruzione, e si sono privilegiati per lo più gli studi letterari.
A questo si aggiunge la scarsa preparazione specifica dei giornalisti: pochi master in giornalismo danno spazio a corsi sul giornalismo scientifico, che necessita di una grande preparazione, oltre che di creatività e passione.
Infine ci sono le responsabilità degli scienziati stessi, che spesso hanno un’idea elitaria della scienza e non vogliono comunicarla. A volte per paura di essere fraintesi o banalizzati, ma a volte perché vogliono mantenere un potere, restando ancorati a linguaggi e modalità espressive da “addetti ai lavori”. Lo stesso verbo “divulgare” (= diffondere al volgo) è figlio di questa concezione snob. Ed è un vero peccato, oltre che un danno: la scienza è un mondo affascinante ( lo si capisce quando ci si imbatte in un documentario o in un articolo ben fatto), e probabilmente è l’unica via d’uscita dalla crisi che in tanti campi ci attanaglia.
Insomma, in Italia la scienza fa paura, ma fa paura perché la si conosce poco e male. Ma se gli editori puntassero più sulla scienza che sul gossip o sul sensazionalismo, credo che il pubblico lo apprezzerebbe. C’è fame di sapere.
C’è nell’ambito della cultura letteraria una realtà giornalistica equivalente a quello che è Focus per la scienza?
Può anche darsi che ci sia, ma non lo so: il mio lavoro mi spinge in campi diversi dalla letteratura. Mi limito a leggere i libri che di volta in volta mi affascinano, che siano saggi o romanzi. E, come tutti, apprendo della loro esistenza dai giornali, dai siti internet, dalle segnalazioni degli amici…
Che suggerimenti darebbe a chi parla di libri sui giornali per rendere l’argomento più pop?
Non c’è una ricetta universale. Dipende dai libri. Spesso i saggi offrono spunti meravigliosi: a volte può funzionare estrapolarne un singolo dettaglio, a volte mettere insieme una carrellata di curiosità. E’ più facile dire cosa non fare: strizzare l’occhio alla ristretta cerchia degli addetti ai lavori, parlarsi addosso per dare sfoggio di erudizione. Credo che lo spirito giusto sia lo stesso che si avrebbe con un figlio: cercare di coinvolgerlo emotivamente, con la passione, la curiosità, il gioco. E con la chiarezza.
Ci può dire un libro che consiglierebbe a tutti di leggere?
Qualunque libro sia stato scritto con serietà giocosa, con passione rigorosa, con profondità trasversale.
9 novembre 2013
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