“La stanza delle ombre” di Mirko Zilahy , un thriller d’arte e inganni, pieno di suspense che non si basa su inseguimenti né su efferatezze gratuite. È quella che nasce dal conflitto tra verità e apparenza , che abita gli spazi sottili dell’anima e getta ombre su ogni gesto umano. In “ La stanza delle ombre” di Mirko Zilahy, ambientato in una Roma notturna, costruisce un thriller che converge tra arte, mistero e identità. Un’indagine in un archivio di maschere, sospiri e dedali psicologici, dove ogni dettaglio dipinge un ritratto — non sempre rassicurante — della verità.
“La stanza delle ombre” un thriller di Mirko Zilahy: arte, inganni e un cadavere sulle rive del Tevere
Sul pelo dell’acqua riemerge un cadavere nella posa dell’“Ophelia” di John Everett Millais. L’ispettore Zuliani convoca il professor Nemo Sperati, docente all’Accademia di Belle Arti, che possiede un talento unico: individua anomalie visive, “firma” e coincidenze con maestri pittorici grazie alla sua sensibilità verso il chiaroscuro e le anomalie percettive — il suo teatro mentale, la “stanza delle ombre”.
Subito, il professor Nemo si accorge di come il corpo, così allestito, rimanda a un crimine precedente, forse ispirato alla tela di Artemisia Gentileschi su Giaele e Sisara, che è stata rubata e da poco ritrovata nel Museo di Palazzo Barberini.
Iniziano dunque a sorgere degli inquietanti dubbi: chi è l’assassino? È forse un falsario? Quando Nemo scopre che l’autore del primo quadro è suo padre, Rufo Speranza, celebre falsario suicida, è costretto a confrontarsi con i fantasmi del passato.
Nel frattempo Miriam Tiberi, ispettore di polizia dal carattere forte e sanguigno, segue la pista fino al filo rosso che lega l’arte, l’identità e la follia, rendendo questo romanzo un profondo thriller psicologico adatto al lettore più esigente.
Roma a 360° in un romanzo dipinto a parole
Mirko Zilahy dimostra padronanza nell’evocare una Roma notturna, decadente, avvolta nel chiaroscuro del crimine violento, dove l’arte diventa veicolo di inganno e introspezione e le indagini un modo per riflettere sull’animo umano. Non si tratta di un noir ambientato nei vicoli sporchi: è un romanzo sensoriale, in cui l’arte e la scienza visiva entrano in risonanza con la tensione narrativa.
Ci sono scene di indagine fatte di dialoghi precisi e taglienti, momenti di introspezione e azione che accontenteranno il lettore che ama i romanzi bilanciati, ma anche vissuti interiori dei protagonisti, che non guastano mai. L’attenzione di Mirko Zilahy ai dettagli è come un pennello sporco, un riflesso, una posa che trasforma lo spettacolo del crimine in un’ indagine semiotica, in cui l’ipotesi si costruisce come un mosaico fatto di ombre, cicatrici e riverberi che ti faranno camminare in quella stessa Roma dove Zuliani, Nemo e Tiberi si muovono alla ricerca del falsario.
“La stanza delle ombre” non è un thriller qualsiasi: è un’indagine sull’arte e sull’inganno, su ciò che è detto e ciò che è taciuto. Mirko Zilahy vi trascina in una corsia di specchi e falsi riflessi, dove l’unico modo per sopravvivere è scegliere: guardare davvero, o continuare a far finta. Combina gli elementi del thriller investigativo e del romanzo d’arte con i dialoghi che riflettono competenza storica, senza però appesantire.
Un romanzo ideale per chi ama la contaminazione — indagine, arte, psicologia — ma anche per chi cerca un thriller sofisticato. Una lettura che fa mettere il libro da parte solo quando tutto è svelato, o quando il caso, finalmente, mette giù la maschera.
Noi di Libreriamo non possiamo fare a meno di consigliarvelo, se volete fare una nuova esperienza per conoscere una Roma lontana dai cliché, quella città lontano da turisti, dove il mistero si nasconde dietro ogni portone antico.
In un’epoca in cui la verità è spesso deformata, nascosta o manipolata, “La stanza delle ombre” è un invito a guardare oltre, a scrutare nel buio e nel non detto, per capire che il vero mistero, a volte, non è fuori, ma dentro di noi. Un romanzo che non si legge soltanto: si contempla, si ascolta, si attraversa. E alla fine, ci lascia con una domanda tagliente come un bisturi: che cosa stiamo davvero vedendo, quando diciamo di vedere?