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Simone Di Meo, ”Le istituzioni fanno troppo poco per ricordare Borsellino”

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Il giornalista Simone Di Meo ha parlato con noi di Paolo Borsellino in occasione del 25° anniversario della sua scomparsa

 

MILANO – ‘Borsellino è stato un servitore dello stato nel senso più autentico’. Queste le parole del giornalista Simone Di Meo per incorniciare la figura del magistrato e di tutto il suo operato. In occasione del ricordo di quel tragico giorno in cui perse la vita, Di Meo ha risposto ad alcune nostre domande in merito all’uomo e al magistrato. Ecco l’intervista:

 

Saprebbe raccontarci un aneddoto su Borsellino che pochi conoscono?

Ce ne sono moltissimi. Penso ad esempio al fatto che si svegliasse all’alba per rispondere, personalmente, alle lettere che gli studenti italiani gli inviavano per invitarlo nelle loro scuole a parlare di legalità. Oppure alla scelta di continuare ad aiutare l’anziana madre, nonostante fosse uno degli uomini più a rischio d’Italia, accompagnandola – in un’afosa domenica di luglio – dal cardiologo per una visita di controllo. E questo conoscendo i pericoli che via D’Amelio presentava dal punto di vista dell’incolumità personale.

Ho letto molto della storia di Paolo Borsellino e di Giovanni Falcone e credo che non si possa racchiudere la loro grandezza di uomini in un singolo evento, un singolo episodio. È tutta la loro vita a essere d’esempio.

 

Se dovesse riassumere in poche frasi l’operato di Borsellino, cosa direbbe?

Borsellino è stato un servitore dello Stato nel senso più autentico. Ha ingaggiato una lotta contro la Bestia mafiosa senza lasciarsi impressionare dalla violenza ottusa e sanguinaria dei suoi seguaci, e così ha insegnato all’Italia e agli italiani come e perché si può sconfiggere. La cosa più eccezionale è che lo ha fatto con l’esempio e il sacrificio di sé.

 

Secondo lei le istituzioni si impegnano nel giusto modo per perpetrare il suo ricordo? Nella lotta alla mafia, si sta ancora proseguendo sulla via che aveva intrapreso?

Non vorrei apparire populista, ma credo che le Istituzioni facciano ancora troppo poco per ricordare il valore, la storia e l’eredità di Paolo Borsellino. Certo, la strada intrapresa è quella da lui indicata ma noto che ci sono tante scorciatoie che si allontanano dal sentiero maestro per addentrarsi in selve oscure nelle quali difficilmente filtra la luce. Penso a una certa antimafia militante e di facciata che sta emergendo, in questi mesi, un po’ ovunque depotenziando il messaggio di una mafia battibile e umanamente destinata a finire, come insegnava Giovanni Falcone.

 

Quello che non si può conoscere non si piò combattere. Lei nel tempo si è impegnato nel raccontare il mondo della mafia, anche attraverso un libro. Pensa che si stiano facendo dei passi in avanti nella lotta alla mafia?

La mafia militare credo che ormai sia quasi del tutto scomparsa. Esistono ancora però le sovrastrutture finanziarie, imprenditoriali e politiche che dalla mafia hanno ottenuto benefici (consenso elettorale, denaro) enormi riuscendo a mimetizzarsi nella realtà circostante. Su questo fronte, siamo ancora molto indietro a mio modo di vedere. La mafia 2.0 è quella che bisogna andare a snidare nelle Camere di Commercio, nelle banche e nei Palazzi del potere. Il picciotto che suona lo scacciapensieri è passato. Ora, i mafiosi parlano inglese.

 

Secondo lei è più difficile estirpare la mafia in Italia rispetto ad altri paesi? Se si, perché?

Non credo, anzi. In Italia ci sono professionalità e cultura investigativi di primissimo livello. Solo che è un lavoro lungo. E complesso. Pensare che non siamo all’altezza è il primo passo per il fallimento.

 

19 luglio 2015

 

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