È con “Amami quanto io t’amo” che Alfonso Signorini si discosta dalla sua lunga carriera di giornalista.
È un libro che si muove dichiaratamente sul registro dell’eccesso, della passione, del rischio e si legge come un grande melodramma sentimentale, con le sue scene madri, i colpi di scena, i momenti in cui la realtà sembra quasi piegarsi alle esigenze della storia d’amore.
Ma quel melodramma serve a qualcosa: prende sul serio i sentimenti, li tratta come motore della vita, non come debolezza da ridicolizzare.
Alfonso Signorini e le differenze con il suo passato
Volto televisivo e autore di libri dedicati alle grandi icone del Novecento, da Maria Callas a Marilyn Monroe, con “Amami quanto io t’amo” (Mondadori, 2025) sceglie di camminare su un terreno particolarmente difficile.
Non è più la biografia romanzata di una diva, ma una storia d’amore che non osa dire il suo nome, che chiede definizioni, ma solo sincerità.
“Amami quanto io t’amo”
Al centro del romanzo ci sono due uomini, Alvise e Leonardo, cresciuti ai lati opposti della scala sociale nella provincia veneta. Signorini ha raccontato di aver sentito l’urgenza di mettere al centro un sentimento che non si può più tenere sottotraccia, e di voler mostrare come l’amore diventi davvero rivoluzionario quando mette in crisi un intero sistema di regole non scritte. Ne nasce un romance popolare e volutamente melodrammatico, che usa tutte le carte della narrativa sentimentale per parlare di temi tutt’altro che leggeri: il peso delle aspettative familiari, la vergogna interiorizzata, la violenza morbida delle classi privilegiate, la fatica – e il prezzo – dell’autenticità.
La storia di Alvise e Leonardo, dal collegio familiare alla vita adulta
Villa Acero Rosso e quella gabbia chiamata privilegio
Alvise è l’erede impeccabile di una famiglia facoltosa. Villa Acero Rosso, dove i suoi vivono da generazioni, non è solo una cornice elegante: è il simbolo di un passato nobile e di un presente costruito su prestigio, decoro, apparenza. Ogni stanza racconta un successo, ogni oggetto ricorda a chi ci abita che c’è un ruolo da interpretare e che non è ammesso uscire dal copione.
In questo scenario perfettamente curato, la vita di Alvise è già tracciata: studi giusti, matrimonio giusto, lavoro giusto. Il privilegio, però, ha un lato oscuro. Per continuare a goderne bisogna accettare che la propria libertà valga meno della reputazione di famiglia. Villa Acero Rosso diventa così un personaggio a sé: bellissima da guardare, ma con le sbarre invisibili di una prigione dorata.
Leonardo viene da tutt’altrove. La sua è una famiglia semplice, una di quelle in cui la libertà non è un premio da conquistare, ma un modo naturale di stare al mondo. Le sue case non hanno nomi altisonanti, non compaiono sulle riviste, ma sono luoghi dove ci si parla in modo diretto, dove il denaro è poco e i compromessi sono altri. Quando i due mondi si toccano, la differenza di classe non è un dettaglio, è il primo muro da scavalcare.
Un incontro d’estate che non si dimentica più
L’incontro fra Alvise e Leonardo avviene quasi per caso, “alle soglie dell’adolescenza”, durante un’estate come tante che, a posteriori, diventa l’estate in cui cambia tutto. C’è la leggerezza delle vacanze, ci sono i pomeriggi lenti in cui sembra che il tempo non debba finire mai, ci sono i corpi che cominciano a trasformarsi e non si sa bene come gestirli.
Da subito, fra i due nasce un’intesa che mescola riconoscenza, curiosità, ammirazione. Leonardo guarda Alvise con la distanza di chi sa di trovarsi davanti a un “signorino” abituato a non chiedere nulla; Alvise osserva Leonardo come se fosse un varco su un mondo dove le cose si possono dire a voce alta, senza filtri. Quella che all’inizio sembra un’amicizia estiva diventa una presenza costante. Gli anni passano, i due crescono, ma il filo che li unisce resta teso, a volte quasi insopportabile.
Per Alvise, quell’amicizia diventa un richiamo fisso, un pensiero che torna quando meno se l’aspetta. C’è qualcosa in Leonardo che lo attira e lo spaventa insieme: la sua libertà, la sua capacità di non farsi definire dagli altri, la leggerezza con cui attraversa luoghi in cui Alvise si sente sempre un po’ fuori posto.
Quando l’amicizia smette di bastare
Arrivati all’età adulta, i due hanno preso strade molto diverse. Alvise è diventato l’uomo che la sua famiglia si aspettava: serio, di successo, con un matrimonio che sembra perfetto agli occhi di tutti. Leonardo ha una traiettoria meno lineare, fatta di lavori, tentativi, relazioni che non devono rendere conto a nessuno.
Eppure, sotto la superficie, niente è come sembra. Quella che per gli altri è una vecchia amicizia rimasta nel tempo, per Alvise è una ferita che non si chiude. L’attrazione che ha sempre provato per Leonardo non è mai stata davvero nominata, neppure dentro di sé. Ogni volta che cerca di archiviarla come “infatuazione adolescenziale”, qualcosa torna a pulsare. La vita in villa, con le sue cene, i suoi obblighi, le sue fotografie perfette, comincia a stargli stretta come un abito cucito sulla misura sbagliata.
Il romanzo segue proprio questa lenta presa di coscienza: pagina dopo pagina, il lettore assiste al momento in cui Alvise capisce che quel sentimento non è un errore da correggere, ma l’unica cosa che lo fa sentire davvero vivo. Da lì nasce la domanda che regge tutta la parte finale della storia: quanto siamo disposti a rischiare pur di non tradire noi stessi?
Desiderio, classi sociali e famiglie che non ascoltano
Un amore queer dentro (e contro) la buona società
“Amami quanto io t’amo” è prima di tutto un romanzo d’amore queer. Ma non mette al centro il coming out adolescenziale o la scoperta della propria identità in una comunità accogliente. Qui il desiderio tra uomini esplode dentro un contesto che fa di tutto per tenerlo fuori campo, o per relegarlo al ruolo di segreto inconfessabile.
La differenza di classe rende tutto più complesso. Alvise e Leonardo non partono dallo stesso piano: l’uno ha tutto da perdere, l’altro quasi nulla. L’amore, in teoria, è uguale per tutti; nella pratica, però, pesa diversamente a seconda del capitale sociale che ci si porta sulle spalle. È questo squilibrio a dare al romanzo una tensione particolare.
Per Alvise, scegliere Leonardo significa rinunciare a un mondo intero: la villa, il cognome, le relazioni costruite in anni di cene, affari, frequentazioni. Per Leonardo, scegliere Alvise vuol dire accettare di entrare in un universo che forse non lo riconoscerà mai davvero come “uno di casa”. La storia d’amore, insomma, non è sospesa in un vuoto romantico: è ancorata ai rapporti di potere, e Signorini non fa finta che non sia così.
Famiglie amorevoli e terribilmente spaventate
La famiglia di Alvise non viene dipinta come una masnada di mostri omofobi. È composta da persone affettuose, a modo loro, che si sono convinte di sapere cosa sia “il bene” per il figlio. Proprio questo la rende più inquietante: non c’è odio esplicito, c’è il rifiuto dolce, ma fermissimo, di tutto ciò che esce dallo schema.
Il romanzo mostra con chiarezza quanto la violenza delle aspettative possa essere elegante. Non ci sono urla, non ci sono cacciate plateali: ci sono silenzi, inviti alla discrezione, frasi come “pensa a quello che rischi”, “non far soffrire tua madre”. Il risultato è lo stesso: Alvise interiorizza l’idea che il suo amore sia un problema, un errore, qualcosa che riguarda solo lui e che è suo dovere tenere sotto controllo.
Qui si sente l’esperienza di Signorini come cronista di costume. Nelle interviste l’autore ha raccontato di essersi ispirato a una vicenda reale, una famiglia dell’alta società pronta a insabbiare qualsiasi cosa pur di non intaccare la propria immagine. Da quel punto di partenza nasce il bisogno di raccontare un personaggio che, a un certo punto, decide di non essere più complice di quella rimozione.
La provincia elegante che preferisce il decoro alla verità
Sul fondale si muove una Treviso che il romanzo rappresenta come elegante, curata, apparentemente irreprensibile. È una città di facciate: piazze pulite, vetrine, chiese, ricevimenti. Tutto ciò che disturba l’ordine viene spinto ai margini, ignorato, sussurrato.
Signorini conosce bene questi ambienti e li racconta con l’occhio di chi li frequenta da anni: un gesto della padrona di casa a un pranzo, le battute in codice tra uomini d’affari, le piccole malignità dette sottovoce. Il contrasto fra questa superficie perfetta e la forza del sentimento fra Alvise e Leonardo è uno dei motori del romanzo. Più la città prepara palcoscenici impeccabili, più l’amore dei due rischia di sembrare fuori luogo – ed è proprio lì che diventa politico, non solo romantico.
La voce di Signorini tra melodramma, lirica e cultura pop
Un “esordio” dopo molti libri
Anche se “Amami quanto io t’amo” non è il primo volume firmato da Signorini, lui stesso lo definisce il suo vero debutto nel romanzo. Qui non racconta più una figura iconica da fuori, ma si mette in gioco inventando personaggi e situazioni che, inevitabilmente, rimandano a esperienze personali e a mondi che conosce molto bene.
La prosa è volutamente limpida, accessibile, costruita per parlare a chi magari legge poco durante l’anno ma vuole una storia che prenda allo stomaco. Il tono è confidenziale, quasi da lunga confessione. Di tanto in tanto emergono accensioni più liriche, soprattutto nelle pagine in cui Alvise lascia andare la voce interiore e dice finalmente quello che ha sempre taciuto. Si sente la passione di Signorini per la lirica e il melodramma: alcune scene hanno il passo dell’aria d’opera, con frasi che sembrano nate per risuonare a lungo.
Un romanzo di formazione travestito da love story
Sotto la veste del romance, “Amami quanto io t’amo” è anche un romanzo di formazione. Segue Alvise dall’adolescenza alla maturità, attraversando le fasi in cui ci si convince di potersi adattare, di poter darsi in pasto alle aspettative altrui senza pagare un prezzo.
Il percorso è quello del classico coming of age, ma spostato in avanti nel tempo: l’eroe capisce chi è davvero non a diciotto anni, bensì quando la vita sembra già aver preso una direzione definitiva. Questo rende la storia particolarmente riconoscibile per molti lettori adulti, non solo per chi si ritrova nelle dinamiche queer. Quante persone, a un certo punto, guardano la propria vita dall’esterno e si chiedono “dove mi sono perso per strada”? Il romanzo, nel suo linguaggio popolare, mette esattamente quel momento al centro.
E il fatto che un autore popolarissimo decida di raccontare un amore tra uomini con questo grado di pathos, dentro un grande editore generalista, ha un peso concreto.
Signorini usa l’enorme familiarità del pubblico con il suo volto per veicolare un messaggio molto semplice e molto radicale: amare qualcuno, davvero, non è mai sbagliato. Sbagliato è tutto ciò che costringe a farlo di nascosto, come se fosse una colpa.