Negli ultimi anni, tra le etichette letterarie che circolano su BookTok e nei dibattiti critici, è comparso un termine curioso: shi-fi. Non si tratta di un errore di battitura di “sci-fi”, ma di un genere a sé, che fonde la fantascienza con la dimensione spirituale. Una corrente ancora giovane e poco conosciuta, ma che affonda le radici in alcuni dei grandi autori del Novecento e che oggi torna a interrogarci con forza: che cosa resta dell’anima nell’epoca delle macchine?
Lo shi-fi è, in sintesi, “spiritual fiction” o “spiritual science fiction”: narrativa speculativa che mette insieme scenari scientifici o tecnologici e domande sul divino, sulla coscienza, sull’aldilà. Se la fantascienza tradizionale si concentra su come le scoperte cambiano la società, lo shi-fi chiede come le stesse scoperte possano trasformare l’interiorità, i miti e persino le credenze religiose. È un genere che non teme di accostare fisica quantistica e metafisica, laboratorio e tempio, intelligenza artificiale e preghiera.
A ben guardare, le sue origini non sono affatto recenti. Già Philip K. Dick, negli anni ’60 e ’70, costruiva romanzi che sembravano veri e propri vangeli apocrifi della modernità. “Ubi” è una meditazione sulla morte e la resurrezione travestita da thriller futuristico, mentre “La trilogia di Valis” è un viaggio mistico sotto forma di speculazione fantascientifica. In un altro contesto, Stanisław Lem con “Solaris” raccontava un pianeta che diventa specchio della coscienza umana, un’entità misteriosa che costringe i protagonisti a misurarsi con il lato più rimosso di sé stessi. E ancora, Ursula K. Le Guin inseriva nei suoi mondi lontani riflessioni antropologiche e spirituali che sfidavano il pensiero occidentale.
Classici dello shi-fi
Philip K. Dick, “La trilogia di Valis”
Pubblicato nel 1981, “La trilogia di Valis” non è un semplice romanzo di fantascienza: è un’autobiografia spirituale camuffata da narrativa. Il protagonista, Horselover Fat — alter ego di Dick —, vive un’esperienza mistica dopo un’operazione ai denti: una luce rosa, proveniente da un’entità chiamata VALIS — Vast Active Living Intelligence System —, gli trasmette visioni e conoscenze trascendenti. Da quel momento, la sua vita diventa un’indagine metafisica in cui la realtà quotidiana si intreccia con il divino, l’esegesi biblica e la filosofia gnostica.
Il romanzo si muove tra episodi surreali, dialoghi filosofici e riflessioni sulla natura di Dio, del male e della salvezza. VALIS è forse un satellite extraterrestre, o forse una manifestazione di Dio che comunica con l’umanità attraverso impulsi informatici. La trama non cerca di dare risposte chiare: il cuore è il percorso interiore, la ricerca di senso in un mondo che appare frammentato.
Ne “La trilogia di Valis”, Dick porta alle estreme conseguenze le sue ossessioni: il sospetto che la realtà sia un’illusione, la percezione che il sacro possa irrompere attraverso la tecnologia, l’idea che la coscienza sia un campo condiviso tra uomo e universo. È un testo che rappresenta perfettamente la definizione di shi-fi: un’opera che intreccia scienza, spiritualità e narrativa visionaria in una forma di romanzo-saggio, difficile da collocare eppure centrale per capire la sua eredità.
Stanisław Lem, “Solaris”
Il protagonista Kris Kelvin arriva sulla stazione orbitante attorno al pianeta Solaris con il compito di investigare su fenomeni inspiegabili che tormentano gli scienziati residenti.
Al suo arrivo trova un’atmosfera di tensione: uno dei colleghi si è suicidato, gli altri sembrano caduti in uno stato di paranoia e strani eventi si manifestano nell’ignoto oceano che ricopre il pianeta.
Solaris non è un pianeta normale: è un oceano senziente capace di leggere la psiche umana e materializzare copie dei ricordi più dolorosi. Così Kelvin si ritrova a fronteggiare l’apparizione di Harey, la sua compagna morta anni prima, ora “visitante” che non sa se è reale o simulacro. Ogni personaggio deve fare i conti con il proprio passato, con la colpa e con l’impossibilità di comunicare con un’intelligenza assolutamente “altro”.
Ursula K. Le Guin, “La mano sinistra delle tenebre”
Il libro parla di Genly Ai, un emissario terrestre mandato sul pianeta Gethen col compito di convincere i suoi popoli a unirsi all’Ekumen, una comunità interplanetaria. Gethen è un pianeta di gelo eterno e, soprattutto, di umani ambisessuali: le persone non hanno un sesso fisso ma manifestano caratteristiche maschili o femminili solo durante un periodo chiamato kemmer. Le differenze sessuali sono flessibili e il genere diventa un elemento relazionale, non identitario.
Ai si scontra con incomprensioni culturali, sospetti, isolamento.
Nel suo viaggio affronta l’elemento più difficile: fidarsi, amare, comunicare in un contesto in cui le categorie identitarie stesse sono mutevoli. Nel corso della trama, stringe un legame con Estraven, figura enigmatica e trasformata che rappresenta la dualità di genere, lealtà e tradimento.
Il loro cammino attraverso il gelo diventa metafora della lotta per l’incontro e la comprensione reciproca, oltre le barriere del corpo e del linguaggio.
Il termine shi-fi
L’origine del termine è però più recente: nasce nell’ambiente accademico e digitale per dare un nome a una tendenza che i lettori e le lettrici avevano già colto. Non più solo “sci-fi” ma “shi-fi”: la fantascienza che mette al centro lo spirito. Un modo per dire che l’immaginazione tecnologica non basta; c’è bisogno anche di una visione che tocchi l’anima, che racconti futuri in cui la domanda “chi siamo?” diventa più importante di “cosa possiamo fare?”.
Oggi lo shi-fi si trova in più forme. Nella narrativa asiatica e africana, ad esempio, diventa strumento per esplorare il sincretismo religioso e il peso della tradizione dentro scenari futuristici. Nei racconti più vicini alla speculative fiction occidentale, prende la via dell’ecospiritualità, immaginando pianeti dove la natura stessa è sacra e inviolabile. E nell’ambito più tecnologico, si spinge fino a domande radicali: se un’intelligenza artificiale sviluppa coscienza, diventa anche soggetto spirituale? È in grado di pregare, di percepire il trascendente?
A rendere affascinante lo shi-fi è la sua ibridazione. Non si limita a raccontare avventure nello spazio o universi alternativi, ma costruisce viaggi interiori travestiti da esplorazioni cosmiche. Un’astronave può diventare un tempio, un computer un oracolo, un pianeta un altare. Ciò che conta è la tensione continua tra il visibile e l’invisibile, tra ciò che la scienza misura e ciò che la spiritualità intuisce.
Perché questo genere ci interessa oggi? Forse perché viviamo in un’epoca in cui l’intelligenza artificiale scrive testi, la biotecnologia ridefinisce la vita e la morte, e il rapporto tra umano e macchina sembra ridisegnare i confini del possibile. Lo shi-fi diventa così un laboratorio narrativo ideale: ci obbliga a guardare non solo al futuro delle tecnologie, ma anche a quello dell’anima. È un invito a non dimenticare che, dietro ogni innovazione, c’è sempre una domanda antica: “chi siamo e che cosa diventeremo?”.