Rocco Schiavone non è semplicemente un vicequestore; è l’incarnazione della malinconia filosofica trasferita sulle montagne innevate della Valle d’Aosta. Romano nel cuore, sradicato e punito dal destino, Schiavone vive in un esilio interiore, dove il paesaggio di gelo e silenzio si specchia perfettamente nella sua anima dolente.
Il suo è l’archetipo dell’antieroe segnato: un uomo che, pur non seguendo sempre le regole, possiede un codice morale coerente, forgiato dal dolore e dall’amore perduto. La moglie Marina — presenza onirica o allucinatoria, voce della coscienza e del rimpianto — continua a guidarlo nei momenti più oscuri, come un’ombra che non si lascia dissolvere.
Un giallo esistenziale travestito da noir
“Sotto mentite spoglie”, Antonio Manzini ci immerge in una stagione difficile, quella che precede il Natale: un periodo in cui la forzata allegria del mondo amplifica la dissonanza di chi, come Rocco, non riesce più a parteciparvi. Il romanzo si snoda attraverso un triplice enigma — una rapina finita male, un cadavere senza nome incatenato a un lago ghiacciato, la scomparsa di un chimico — che funge da specchio per le domande esistenziali del protagonista.
Non è un semplice intreccio investigativo, ma una costruzione morale: ogni caso è una finestra sulla fragilità del vivere, un modo per interrogarsi sul confine sempre più sottile tra il lecito e il giusto, tra la legge scritta e la legge interiore.
Schiavone attraversa il mondo con gli “occhi socchiusi”: un gesto che non è solo stanchezza, ma indignazione silenziosa verso la mediocrità e l’ipocrisia. È un uomo che lotta per tenere insieme cuore e cervello, memoria e futuro, un equilibrio precario tra la tentazione di rifugiarsi nella propria oscurità e i piccoli, ostinati bagliori di umanità — la guarigione di Sandra, l’imprevista maturità dei suoi colleghi, la solidarietà che nasce nei margini.
Questa non è solo un’indagine poliziesca; è un viaggio interiore di un “angelo caduto”, il cui sarcasmo è una corazza contro il dolore. Manzini usa il delitto come pretesto per rivelare l’anatomia del disincanto: Schiavone cerca la verità, ma soprattutto cerca un modo di restare umano in un mondo che, dietro la neve, nasconde la menzogna.
La maschera come metafora morale
Il titolo, “Sotto mentite spoglie”, non è solo un indizio narrativo: è una dichiarazione etica. Tutti, nel romanzo, indossano maschere — chi per necessità, chi per sopravvivenza, chi per codardia.
La rapina sbagliata è un gioco di travestimenti e ruoli invertiti; il cadavere nel lago, appesantito da 150 chili di pesi, è il simbolo più forte di questa idea: la verità affondata, nascosta sotto strati di menzogna e paura.
La chimica, che sembra appartenere al piano tecnico del giallo, diventa invece una metafora sottile: è la scienza delle trasformazioni, e Manzini la usa come specchio del camuffamento morale — ciò che cambia forma per nascondere la sostanza.
Il tema della menzogna collettiva percorre tutto il romanzo: dalle istituzioni che proteggono l’immagine a scapito della giustizia, alle piccole ipocrisie quotidiane, alle stesse strategie di sopravvivenza di Schiavone, che altera prove o piega le regole per non tradire se stesso.
Il lettore si trova così dentro un labirinto di verità parziali, dove la distinzione tra chi mente e chi si difende dalla menzogna è sempre più fragile.
L’etica del disincanto usata da Rocco Schiavone
Manzini ha costruito, nel corso della saga, un personaggio che invecchia con i lettori, perdendo l’invulnerabilità dei suoi inizi e guadagnando una vulnerabilità nuova, quasi tenera.
Se nei primi romanzi Schiavone era l’investigatore cinico e ironico, capace di risolvere casi e distruggere relazioni, oggi è un uomo che oscilla tra colpa e necessità. Non cambia perché redento, ma perché consapevole: ha capito che ogni azione ha un prezzo, e che il suo mestiere — cercare la verità — non coincide più con applicare la legge.
“Le ossa parlano” (2022)
Si muoveva nel gelo della violenza familiare e rimetteva Rocco davanti a ossa e fantasmi (anche suoi). Lì l’indagine era centripeta, mentre qui pare centrifuga: tre piste che si allargano tra montagna, laboratorio e banche; un’Aosta più “di superficie”, tagliata dalle luminarie, e un protagonista che si muove “tra mascheramenti e formule chimiche”.
Se “Le ossa parlano” era un noir sul rimosso, “Sotto mentite spoglie” sembra un poliziesco sul camuffato.
“Vecchie conoscenze” (2021)
In “Vecchie conoscenze” la lingua era affilata sul registro di squadra: dialoghi, punzecchiature, routine del commissariato come teatro morale, mentre qui la squadra torna (e cresce).
La pagina lascia spazio a un ragionamento più tecnico: chimica, logistica, tempi del sotterrare e del recupero. È un allargamento di raggio: la commedia umana c’è, ma lavora in controcanto all’enigma.
“Pulvis et umbra” (2017) e “Fate il vostro gioco” (2018)
Sono due capitoli simbolo: il primo per la cupezza emotiva e l’ombra lunga della colpa; il secondo per l’uso di un ecosistema chiuso – il casinò – come macchina narrativa.
“Sotto mentite spoglie” sembra mescolare i registri: ombra emotiva (Rocco e Marina) e ecosistemi chiusi — laboratorio, filiera farmaceutica, caveau. L’effetto ottenuto è quello di un ritorno alla serialità piena: un caso forte e, sotto, la biografia che continua a lavorare.
L’Aosta di Manzini: la montagna come metafora del silenzio
Da sempre Manzini la utilizza la Valle D’Aosta come un personaggio parallelo, e qui ne esaspera l’ambivalenza: bianca e pura in superficie, impenetrabile e piena di segreti sotto la neve.
Le luci di Natale, i pupazzi colorati nelle vetrine, l’aria “calda dei tubi” che scioglie il ghiaccio sono contrappunti volutamente stonati rispetto alla crudeltà delle indagini.
In questa cornice, Rocco si muove come un corpo estraneo: un uomo che non crede più alla retorica del bene, ma non rinuncia alla sua personale idea di giustizia.
La verità sotto la neve
“Sotto mentite spoglie” è, a tutti gli effetti, un giallo esistenziale. Dietro l’indagine poliziesca, c’è la ricerca di un senso, o almeno di una coerenza personale, in un mondo che ha smarrito entrambi.
Rocco Schiavone continua a camminare sulla linea sottile tra bene e male, ma lo fa con la consapevolezza che la verità, come la neve, non dura mai a lungo: copre, poi si scioglie, e lascia dietro di sé il fango della realtà.
In fondo, come diceva lui stesso in un vecchio romanzo, “la giustizia è una parola troppo grande per un uomo solo”.
Manzini lo sa bene, e per questo “Sotto mentite spoglie” è molto più di un nuovo caso: è la conferma che Rocco Schiavone è diventato, romanzo dopo romanzo, una delle voci morali più autentiche della narrativa italiana contemporanea.
