Perché “Sayonara gangster” ricorda i grandi scrittori

17 Dicembre 2025

Un viaggio dentro “Sayonara, gangsters” di Genichiro Takahashi, romanzo culto giapponese che tra gangster, poesia e nomi perduti interroga linguaggio e potere.

Perché "Sayonara gangster" ricorda i grandi scrittori

Raccontare “Sayonara, gangsters” di Genichiro Takahashi non è semplice, ma non perché il libro sia incomprensibile. Il problema è l’opposto: è talmente pieno di idee, immagini e cambi di registro che ogni riassunto lo riduce a qualcosa che non è.

Pubblicato in Giappone nel 1982 e diventato nel tempo uno dei titoli simbolo del postmoderno nipponico, il romanzo nasce all’incrocio fra manga, cultura pop, filosofia e poesia. Il protagonista è un insegnante di poesia che tutti chiamano “Sayonara, gangsters”. Vive in un futuro non troppo lontano, in cui il mondo è minacciato da gangster che si comportano come personaggi dei cartoni e in cui i nomi propri vengono buttati in un fiume e sostituiti da etichette scelte a caso.

Intorno a lui ruotano una donna con cui ha una relazione, una figlia, un gatto parlante, poeti reincarnati in elettrodomestici e studenti che si esercitano a scrivere versi. Sembra caos puro; in realtà Takahashi usa questo caos per parlare di identità, linguaggio, morte e potere.

Gangster, poeti e gatti parlanti: cosa racconta davvero il libro

Una trama che sta in piedi ma non vuole farsi ingabbiare

Il romanzo è diviso in tre parti. Nella prima seguiamo la storia d’amore fra il professore di poesia e una donna che sceglie per sé il nome “Nakajima Miyuki Song Book”. Da loro nasce una bambina. In questo mondo, però, la morte arriva anche per posta: una cartolina del Comune annuncia che il bambino è morto. I genitori ne ricevono una, e la figlia muore davvero, come se avesse preso alla lettera l’atto burocratico.

È una delle sequenze più dure del libro: la scena del padre che sistema il corpo nel cimitero dei bambini è raccontata con un tono quasi neutro, senza enfasi. Proprio questa sobrietà rende il passaggio più disturbante.

La seconda parte si sposta sulla scuola di poesia dove insegna il protagonista. Qui il romanzo diventa un laboratorio sul linguaggio. Gli studenti scrivono testi improbabili, discutono sul senso di ciò che fanno, provano a capire se la poesia serva ancora a qualcosa. Fra i personaggi c’è Virgil, poeta leggendario morto da tempo la cui coscienza sembra essersi trasferita in un frigorifero: una trovata surreale che allo stesso tempo commenta il modo in cui la cultura viene “conservata” e resa innocua.

La terza parte dà spazio ai gangster del titolo. Tre di loro arrivano alla scuola per imparare a scrivere poesie e finiscono coinvolti in uno scontro armato con le forze speciali. L’azione, però, è raccontata con lo stesso sguardo con cui prima si parlava di esercizi di scrittura: la violenza diventa un’altra forma di segno, un altro elemento del discorso.

Un futuro assurdo che assomiglia molto al presente

La distopia di Takahashi non ha astronavi né tecnologie futuristiche. Il tratto più inquietante è il modo in cui la burocrazia entra nelle vite private: le cartoline di morte, l’abolizione dei nomi, le procedure amministrative che contano più delle persone.

L’idea che i nomi vengano gettati in un fiume e sostituiti con etichette prese a caso è una delle metafore centrali del libro. I nomi dovrebbero essere ciò che ci individua; qui diventano rifiuti galleggianti, mentre le persone si ribattezzano usando canzoni, slogan, riferimenti culturali. È un modo ironico ma molto netto per dire che l’identità sociale è fragile, costruita, condizionata dai discorsi che circolano.

Nomi, linguaggio, identità: il cuore filosofico di “Sayonara, gangsters”

Buttare il nome nel fiume

Nel mondo del romanzo le persone rinunciano ai nomi registrati all’anagrafe. Vanno in municipio, ricevono indicazioni su come liberarsene e li buttano in un fiume. Da quel momento cominciano a chiamarsi in altri modi: “Sayonara, gangsters”, “Nakajima Miyuki Song Book”, “Caraway”, “Green Pinky”.

Il gesto è comico, ma anche molto concreto. Takahashi mette in scena un sistema in cui l’identità è gestita da un potere impersonale, e in cui l’unico spazio di libertà rimane la possibilità di appropriarsi del linguaggio e usarlo a modo proprio. Ribattezzarsi diventa un atto di resistenza simbolica, anche se non sempre sufficiente.

La poesia come tentativo di rimettere in moto le parole

Il protagonista insegna poesia in una scuola che sembra uscita da un esperimento sociale. Gli studenti non cercano “belle frasi”, ma modi diversi di farsi ascoltare in un ambiente saturo di rumore. Ci sono capitoli fatti solo di rumori trascritti, pagine occupate da diagrammi e disegni, lezioni che assomigliano più a performance che a seminari accademici.

Il romanzo mette continuamente in discussione l’idea di poesia come oggetto nobile e distante. Qui la poesia è un mezzo per testare fin dove si può spingere il linguaggio prima che perda significato. Il professore non ha risposte pronte: si contraddice, ride di se stesso, mette in crisi ogni definizione. È una riflessione molto concreta su cosa significhi scrivere quando tutto è già stato detto e ridetto.

Tra Calvino, Brautigan e i manga: le parentele letterarie

Il parente europeo: perché viene spontaneo pensare a Calvino

Quando si parla di “Sayonara, gangsters”, il riferimento a Italo Calvino torna spesso. Non tanto per l’ambientazione, quanto per il modo di costruire il testo.

Come in “Se una notte d’inverno un viaggiatore” o nelle “Cosmicomiche”, il romanzo di Takahashi procede per frammenti: capitoli brevi, episodi che sembrano a sé stanti ma, letti in sequenza, disegnano una costellazione coerente. La trama non è una linea retta; è un insieme di piste narrative che il lettore deve seguire, abbandonare e riprendere.

C’è poi la famosa “leggerezza” calviniana, quella capacità di affrontare temi pesanti senza appesantire il tono. Takahashi parla di morte, trauma, repressione, ma lo fa attraverso immagini pop, gag, inserti quasi slapstick. Il risultato non è superficiale: è un modo per evitare il tono predicatorio e far passare il discorso in filigrana, mentre il lettore si diverte a seguire gatti e gangster.

Infine, come in Calvino, il romanzo è consapevole del proprio statuto. Non nasconde i fili della costruzione, anzi li mostra: un po’ alla volta il lettore capisce che sta assistendo non solo a una storia, ma a un ragionamento sul modo stesso di raccontare.

La vena pop: da Brautigan ai manga

Accanto al riferimento europeo, la critica cita spesso Richard Brautigan, Thomas Pynchon, certi esperimenti del romanzo americano degli anni Sessanta e Settanta. Il legame più evidente è con Brautigan: la stessa combinazione di malinconia e assurdo, la stessa fiducia nel potere delle immagini stranianti.

Al tempo stesso, “Sayonara, gangsters” affonda le radici nella cultura giapponese degli anni Ottanta: manga, televisione, musica rock, pubblicità. Non è un testo che guarda soltanto all’Occidente; fa dialogare Joyce e i fumetti, Rilke e le bibite gassate, senza gerarchie rigide. È un modo molto diretto di rappresentare un immaginario sovraccarico, dove tutto è potenziale materiale narrativo.

Follia organizzata: un inciso su “Il maestro e Margherita”

Quando la realtà lascia entrare il fantastico

Chi legge la quarta di copertina può pensare subito a “Il maestro e Margherita”: anche lì il fantastico irrompe in un contesto riconoscibile, anche lì la satira del potere passa attraverso figure fuori norma. Il paragone regge soprattutto per la sensazione di spaesamento controllato: come con Bulgakov, il lettore ha l’impressione che possa succedere qualsiasi cosa, ma che l’autore sappia sempre dove sta andando.

Le differenze, però, sono forti. Bulgakov lavora con un’intelaiatura molto costruita, incrocia il presente sovietico con il Vangelo, costruisce una grande allegoria morale e politica. Takahashi è più frammentario e meno allegorico: non c’è un unico “significato nascosto”, ma molti temi che tornano e si rilanciano.

Satira e caos, da Mosca a Tokyo

Se in “Il maestro e Margherita” il bersaglio principale è il regime sovietico, con i suoi burocrati, le sue paure e la censura, “Sayonara, gangsters” prende di mira una società regolata da procedure senza volto, da un’amministrazione che entra fin dentro la famiglia.

La violenza spettacolarizzata, l’americanizzazione, la cultura di massa fatta di gangster cinematografici e presidenti usa e getta sono al centro della critica di Takahashi. In questo senso, il passaggio dai vicoli di Mosca al Giappone degli anni Ottanta segna il passaggio da un potere dichiaratamente repressivo a un potere che agisce per normalizzazione, modulando linguaggio e corpi invece di vietare apertamente.

Un romanzo autoreferenziale o un romanzo politico?

“Sayonara, gangsters” è spesso definito autoreferenziale perché parla moltissimo di scrittura, cita altri testi, gioca con la pagina. È una definizione corretta, se con autoreferenziale intendiamo “consapevole di essere un oggetto letterario”.

Il protagonista è un insegnante di poesia, le lezioni occupano pagine intere, gli studenti discutono su cosa renda un verso efficace, su come si costruisce una metafora. Il romanzo mostra la propria officina, non solo il risultato finito.

Questo però non annulla la dimensione politica, anzi. Proprio perché mette a fuoco il modo in cui il linguaggio funziona, il libro interroga anche il modo in cui il potere usa il linguaggio: cartoline che decidono la morte di un bambino, definizioni di “gangster” e “normale” che cambiano a seconda del contesto, discorsi ufficiali che sostituiscono l’esperienza reale.

Si può dire che il romanzo sia politico proprio in quanto “metalinguistico”: mostra come le parole non siano neutre, come possano salvare o cancellare, dare spazio o chiuderlo.

Perché leggere “Sayonara, gangsters” oggi

“Sayonara, gangsters” non è il classico romanzo da leggere in una sera distratta. Chiede attenzione e un minimo di disponibilità ad accettare l’imprevedibile. In cambio, offre qualcosa che in narrativa si trova di rado: la sensazione che una storia stia interrogando anche il modo in cui, ogni giorno, usiamo le parole.

Alla distanza di decenni, il libro parla bene al presente. La gestione amministrativa delle vite, l’identità ridotta a dati e nickname, la sovrabbondanza di messaggi che rende difficile distinguere il significativo dal superfluo sono temi che riconosciamo fin troppo.

Per chi ama Calvino, Brautigan, Murakami o in generale i romanzi che deviano dal realismo puro senza perdere di vista il mondo, “Sayonara, gangsters” è una lettura interessante. Non perché sia un oggetto da collezione per appassionati di sperimentazione, ma perché dimostra che si può raccontare una società complessa restando giocosi, irriverenti e profondamente seri allo stesso tempo.

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