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“Un borghese piccolo piccolo”, il romanzo di una mancata identificazione

Vincenzo Cerami ha pubblicato “Un borghese piccolo piccolo” nel 1976 e la storia di Giovanni Vivaldi non passerà mai di moda. Giovanni, il nome di un italiano qualsiasi, senza infamia e senza lode. Un impiegato come tanti. Uno di quelli che trascorre la vita all’interno di un ufficio, pago delle scartoffie che ”odorano di Brillantina solida Linetti”, dei caffè bollenti e amarognoli preparati dall’usciere invalido, dei commenti puritani rivolti ai fattacci di cronaca nera. Delle chiacchiere.

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Il lavoratore dell’ora di punta, stipato nelle sua utilitaria e nel traffico della città soffocante. Giovanni e il posto fisso al Ministero; Giovanni e la moglie iper-cattolica; Giovanni e le domeniche spese a pescare, seguendo un rituale anche nei giorni di riposo, così per non tradire quella sacrosanta abitudine che rende insipida l’esistenza. Ruffiano del capoufficio dai capelli sommersi di forfora, a cui poter dare del tu in nome di una privilegiata confidenza.

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Una frustrazione ben canalizzata e metabolizzata, che fa pensare a Bernardo Soares, per intenderci. Ma senza inquietudine, poiché l’inquietudine rende vivi, dona rabbia e aneliti di vita. L’impiegato Vivaldi, infatti, non è inquieto, altrimenti, mal sopporterebbe la monotonia di un lavoro spento: è solo agitato per la sorte del figlio Mario, un capacissimo e brillante ragioniere ventenne. Mario deve sistemarsi e guadagnare; deve collocarsi in società, costi quel che costi. Una sintesi perfetta dell’esistenza dei Vivaldi, l’Autore la delinea sin dalle primissime pagine, quando descrive la cattura di un pesce, apparentemente insignificante.Padre e figlio si trovano assieme a pesca, vicino ad uno stagno. Parlottano del futuro del giovane: “Farai strada, quant’è vero Iddio… comincerai proprio da dove sono arrivato io, dopo trent’anni di servizio… “. La voglia di cambiare la macchina, che, nei favolosi Settanta, era più uno status symbol che un mezzo di trasporto, il desio della televisione nuova che, ancora oggi, a distanza di quarant’anni, costituisce oggetto venerato nelle case degli italiani, la sciocca ambizione di suscitare negli altri un senso di timore reverenziale: “ Mio figlio è ragioniere, il ragionier Vivaldi”.
Ragioniere, si, come Fantozzi.
“…Il nostro unico figlio l’abbiamo fatto diventar ragioniere…”. Ecco, nessun senso di colpa genitoriale. Giovanni ha fatto studiare il ragazzo e solo questo dovrebbe autorizzarlo ad andare avanti senza pensare al prossimo. Come dire, “chi sei tu e chi sono io”.

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Mentre i due si gongolano e progettano riconoscimenti, un fario “lungo un palmo, muso breve, ottuso, bocca ampia” abbocca all’amo della canna di Giovanni. Il malcapitato pesce, dopo un balzo oltre l’acqua, ricade tra le erbacce, viene bloccato da Mario e afferrato con odio da Giovanni, che gli fracasserà la testolina, con un sasso, fino all’ultimo fremito, e gli toglierà l’amo conficcato nello stomaco, dilaniando i poveri intestini. Il libro potrebbe già terminare. Cerami usa la metafora del pesce per descrivere ciò che avverrà nelle vite dei Vivaldi: l’illusione di poter arrivare in alto (il balzo del povero fario), la competizione e la sconfitta (le mani di Mario che lo bloccano), il potere del più forte che ti schiaccia senza pietà (Giovanni e il suo sasso).

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Il pesce piccolo viene divorato da quello più grande. L’amo conficcato nello stomaco del pesciolino, in realtà, è una cruda immagine di quello che il borghese è: un soggetto intrappolato nella propria ambizione o posizione.  “Ecco, adesso che gli abbiamo tolto la testa e le interiora, non ci rimane che cucinarlo”. Quando le convenzioni sociali avranno privato l’uomo del suo pensiero e della sua anima, non resta che la morte: la morte morale. Ma non dobbiamo pensare che il più forte, in questo caso, sia necessariamente chi ci precede sulla scala sociale.
Come nella canzone di Branduardi, “Alla fiera dell’est”, ci sarà sempre qualcuno che si dimostrerà in grado di annientare l’altro da sé, fino a che non arriverà Dio o il Fato o la Fine (dipende dal credo) che pone un punto al termine del periodo.

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Giovanni Vivaldi dimostra la sua forza nei confronti di un pesce indifeso, trasferendo su se stesso ciò che la società massonica farà con lui nelle successive pagine, incarnando, dunque, l’arrivismo cieco che lo caratterizzerà e tramutandosi nel mostro ideale che divorerà la sua vita. Egli, per un momento, è il Leviatano di se stesso.
La precarietà frustrante del modo di vivere dei due uomini, può trovare la sua collocazione visiva nella baracca disordinata, con l’armadio sfondato e il tavolino senza gambe, che Giovanni vorrebbe trasformare in villa, prima o poi. La quotidianità del “borghese piccolo piccolo” si snoda tra sentenze sulla cronaca nera e sulla politica spicciola (populismo), chiese e perbenismo (bigottismo), aspirazioni all’uguaglianza tra giovani e, al contempo, richieste di raccomandazioni, “lentezza prudente” dell’impiegato (pigrizia e alienazione). Giovanni accetta di entrare nella Massoneria pur di far superare al figlio il concorso al Ministero. Emblematico è il passaggio da “profano” a massone.
L’impiegato è costretto ad attraversare un corridoio nero, per arrivare ad una fioca luce; deve superare delle prove al limite del simbolismo ridicolo, tra cui il rischio di bere un bicchierino di veleno che, nella realtà, si rivelerà un banalissimo Amaro Averna. Tutto concluso da un fariseo “bacio della Bibbia”. Tra i massoni, conoscerà tutti i suoi colleghi e annuserà l’olezzo (per lui, profumo) della brillantina solida Linetti: non si libererà mai della morsa dell’ufficio.

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Il tipico profilo del borghese scivola sulla scala sociale, come la cera sulla candela accesa in Chiesa, dalla mamma Amalia, il giorno prima del concorso di Mario: “Sale, sale, sale e Sapienza, porta a casa mia la Provvidenza”.
Insomma, una raccomandazione anche al Padre Eterno dovrebbe servire a chiudere il cerchio, per dormire più tranquilli. La mattina del concorso-beffa, Mario e Giovanni osservano con distacco le facce dei poveri cristi nell’autobus. Si sentono eletti, orgogliosi di non aver fatto la fine di quei disgraziati (“gli altri erano la fine che né lui né Mario avevano fatto”). Ma per quale merito? L’autobus percorre Roma,mettendo sotto le ruote sampietrini e dignità. Pochi istanti dopo, Mario cade sotto i proiettili di alcuni rapinatori, al Monte di Pietà. Come il fario dello stagno. La vita dei Vivaldi si assottiglia giorno dopo giorno. L’ufficio diventa sempre più piccolo. Le ambizioni spariscono. L’ipocrisia dei colleghi e superiori accompagna per qualche mese l’impiegato, fino a quando non soccombe sotto l’ascia della routine, sotto i “soprannaturali doveri di animale”. La facciata di uomo perbene esplode, frantumandosi, quando Giovanni sequestra e ammazza (di nascosto) l’assassino del figlio, dopo averlo identificato in Commissariato.

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Anche Amalia muore, lasciando al marito l’ultima soddisfazione: le saracinesche del quartiere abbassate in segno di lutto. Ultimo sussurro di una convenzione anelata e mai ottenuta. Il riconoscimento per una vita di “servizio” si risolve lì, in quelle saracinesche. La pensione, la solitudine la macchinetta del caffè e la monotonia che ritorna, antipatica. Il libro di Vincenzo Cerami sconvolge l’animo puro e terrorizza chiunque creda nella meritocrazia.
Lascia un senso di ansia nel cuore. È il romanzo della mancata identificazione. Ricco di simbolismo, di immagini e metafore che non risaltano con immediatezza all’occhio del lettore rapido.  Giovanni Vivaldi è un personaggio odioso, perché vuole diventare ciò che non è e mai sarà. E per farlo, utilizza canali non ‘nobili’. Egli è sommerso in un ambiente bugiardo, parto dell’apparenza, dove non conta se il tuo superiore si gratta la forfora, perché è il tuo superiore e, se te lo chiedesse, quella forfora la mangeresti pure. Entra in ritardo nel regno degli eletti e viene messo a svolgere le mansioni più umilianti, senza che questo solletichi la sua fiamma di ribellione.

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Dimostra la sua piccineria quando, avvicinato da un viscido massone in difficoltà economica, rifiuta di prestargli mille lire. Non esiste la gratitudine per Vivaldi, che si limita a pensare di dover comprare una cassa di liquori, come ringraziamento, per il suo capoufficio che lo ha introdotto nella massoneria. Ma l’impiegato piccino suscita anche tanta tenerezza e compassione ed è proprio qui che l’abile sensibilità dell’Autore emerge in tutta la sua chiarezza: egli baratta la propria esistenza per un posto da ragioniere e, alla fine, rimane tutto solo con la sua macchinetta del caffè, dopo essere diventato protagonista proprio di quella triste cronaca nera sempre commentata.

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È il borghese che si affanna, come il gattino che cerca di uscire dalla scatola di cartone graffiando le pareti con le unghiette. Arriverà il suo padroncino, prima o poi, che deciderà se aiutarlo ad uscire o rimetterlo sotto la maglia di lana, adagiata a mo’ di copertina nella scatola. Il “borghese piccolo piccolo” crede di possedere una propria volontà, ma si muove come un inconsapevole burattino sulla scena di quello che la società vuole. Giovanni, l’impiegato-topolino della “Fiera dell’Est”. Cerami ci lascia un inquietante interrogativo in acqua torbida: ma davvero vogliamo trascorrere i nostri anni alla disperata ricerca di un’identificazione, di un’appartenenza ad un gruppo? Veramente il nostro “fare” deve essere impregnato nelle sabbie mobili dei favori, sgombro da ogni senso di libertà? Non è meglio vivere senza riflettere su ciò che gli altri si aspettano da noi?

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“Un borghese piccolo piccolo” ci insegna a rispettare la nostra vita, ad accarezzarla, a darle quel valore intrinseco che non è collegato alla posizione sociale ricoperta. Ci insegna a vedere la bellezza nella purezza, nella calma, lontani dagli affanni, dai rapsodici impegni fini a se stessi. Sediamoci a leggere, ad ascoltare musica, diamo baci, regaliamoci durevoli attimi di amore per noi stessi perché c’è sempre tempo per il resto. Siamo passeggeri.  Ragionieri o vagabondi, siamo tutti uguali, perché visti dalla stessa prospettiva. E Giovanni è piccolo piccolo, da ogni prospettiva. Decida il lettore se l’aggettivo debba essere ricondotto all’ingenuità infantile (poveretto!), alla sua debolezza o alle dimensioni della sua moralità. E forse, risulterà meno arduo comprendere l’esclamazione del prete ai funerali di Amalia, massima di tutto il capolavoro di Cerami: “Come sono piccoli gli uomini…”. Come sono piccoli.
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Grazia Ragone

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