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Testa, mani e cuore, spaccato di quell’Italia che fa del lavoro una grande virtù

Il lavoro, questo sconosciuto. Se fosse una persona, oggi come oggi, troveremmo le sue foto per strada con la scritta “wanted”. Eppure, in barba ai tempi, il libro di Vincenzo Moretti, “Testa, mani e cuore”, parla con entusiasmo del lavoro.

Pubblichiamo la recensione di Ida Granato per la precisione nell’analisi del testo di Vincenzo Moretti e per la profonda riflessione sull’attuale situazione lavorativa ed economica che interessa il nostro Paese

Il lavoro, questo sconosciuto. Se fosse una persona, oggi come oggi, troveremmo le sue foto per strada con la scritta “wanted”. Qualcuno andrebbe a “Chi l’ha visto?”. Eppure, in barba ai tempi, il libro di Vincenzo Moretti, “Testa, mani e cuore”, parla con entusiasmo del lavoro. Controcorrente a tutte le statistiche sulla disoccupazione. Un testo che aiuta a credere ancora nell’Italia che vuole fare e fare bene, e che, ad inseguire le cifre e a lasciarsi prendere dallo sconforto, si rischia di dimenticare. Un inno all’arte che “nobilita l’uomo”. Sì, perché lavorare bene è un’arte, che richiede sperimentazione (provare e riprovare, sporcarsi le mani ), coscienza (la testa) e amore (il cuore). E poi è una questione di predisposizione, perché la volontà di lavorare bene se ti manca non la puoi inventare. E se ce l’hai, non ti abbandona mai.

Almeno cinque gli spunti di riflessioni offerti da questo romanzo. Lavoro-identità. Non ci vuole molto per ritrovare il lavoro quale fondamento su cui si costruisce l’identità. Il filo rosso che lega tutte le storie. Basta arrivare alla quinta pagina e leggere le parole di Libero. Senza il suo lavoro, perde il ruolo nel quale sembra riconoscersi più che negli altri. È padre, marito, fratello e figlio, ma probabilmente non gli bastano per definire chi è. Oggi, più di ieri, il lavoro si lega a quel bisogno di realizzazione personale che è fondamentale per sentirsi bene e vivere una vita di qualità. Un colpo da sociologo suggerirgli di fare proprio l’artigiano. Perché l’artigiano non rischia di essere risucchiato dagli ingranaggi della macchina, come Charlie Chaplin in “Tempi moderni”.

L’artigiano è padrone del suo lavoro. Non deve s-venderlo a nessuno. Non appiattisce la sua personalità. È libero di metterci fantasia, creatività, ingegno. Però, oltrepassando tutte le note teorie marxiste sull’alienazione, lo sfruttamento, l’oggettivazione della forza lavoro. Due le parole chiave, senso di appartenenza e consapevolezza della propria esistenza e della propria forza. Lavoro-giovani. Anche i giovani fanno fatica a definirsi. Molti non possono dirsi disoccupati, perché non hanno mai avuto un lavoro vero, di quelli che ti inquadrano e ti versano i contributi. E non sono nemmeno inoccupati, perché arrangiano alla meno peggio. Alle prese con un lavoro che, per dirla alla Simmel, assume sempre più forme e pochi contenuti. Le forme degli innumerevoli ed improponibili contratti atipici.

I contenuti, valli a cercare. Da diritto a privilegio. Bisogna prostrarsi se ti fanno lavorare, pagandoti pochi soldi al mese a quando te li danno. Come se lo stipendio fosse un optional. Mica vorresti andare a vivere da solo, viaggiare, o “forse” semplicemente vorresti lavorare e ti mortifica ricevere ancora la paghetta, a 30 anni. “Bamboccioni”, dicono. Ma sono loro che ci vogliono così. Perché è più semplice. Per fortuna non sempre ci riescono. Prostrarsi quando pare che ti stiano offrendo chissà quale grande occasione, perché se non accetti tu c’è la fila dietro la porta.

Esercito industriale di riserva, così lo chiama Marx. Diciamola tutta, il favore lo fai tu a loro. Sei choosy se poi, dopo tanto tempo che fai il cameriere, il centralinista, la commessa, vorresti di meglio perché hai una laurea (grondante di sudore) in tasca. Anche se, quando poi ti mettono lì a non fare niente, perché fondamentalmente non c’è niente da fare, e le tue potenzialità ti scoppiano dentro, è meglio fare il cameriere, il centralinista o la commessa. Sentirsi stanco dopo aver lavorato è molto più appagante dell’essere stanco di non fare niente.

Questo sempre perché i giovani sono choosy Lavoro-esperienza. «Cercasi laureato da non più di 12 mesi, con esperienza di almeno 2 anni». Una barzelletta. Della serie, “è nato prima l’uovo o la gallina?”. Questi fanno finta o non lo sanno davvero che non si nasce imparati; che l’esperienza, le competenze, passano proprio attraverso il lavoro; che il mestiere si impara facendo. Che bel gerundio, fa-cen-do. Il lavoro che all’inizio non sai dove mettere le mani, che arrossisci perché hai sbagliato, che vai avanti a tentoni finché non becchi la soluzione giusta e poi col cavolo che la dimentichi. Le persone non sono macchine, che poi pure quelle si inceppano. E i pre-confezionati esistono solo al supermarket, nel banco surgelati.

Le ultime due riflessioni dimostrano quanto sia profondamente vero, attuale e soprattutto “umano” il romanzo di Vincenzo Moretti. Lavoro-invalidità. Penso a Gaia, che quando andò a visitare la commissione medica rimase stupita che avesse una laurea, che fosse spigliata, allegra ed ironica. Come se per qualche assurda ragione avesse dovuto giocarsi il cervello. Per tanto tempo aveva rifiutato l’idea. Non le piaceva proprio il termine “categorie protette”. Che poi, protette da cosa? Invalidità, un’etichetta. Non l’avrebbe mai lasciata in pace il dubbio di essere assunta solo perché invalida. Una quota di riserva, figuriamoci. Lei, che cerca le occasioni se non arrivano, che le cose o si fanno bene o niente. Lavora con la testa, le mani ed il cuore, anche se molte cose deve ancora impararle. Ma per quello c’è tempo, almeno lo spera.

Fu per questo che sbatté in faccia alla commissione quelle quattro carte che non sapevano leggere. Avrebbero dovuto accertare la sua invalidità, ma, a ben guardarle, fra le righe, erano solo la prova che sapeva tirare dritto. Fra un ostacolo e una meta. Un sacrificio ed un successo. Come solo chi ha l’approccio vincente sa fare. Lavoro-pensione. L’ingegnere Lorenzo mi ricorda Stakanov, chiamiamolo cosi. Lavora da quando aveva tredici anni e da più di trenta è impiegato presso un’azienda, dove lavorarci è una tradizione di famiglia. Era prossimo alla pensione, finalmente poteva riposare. Se non fosse cambiata la legge.

Il prepensionamento non conveniva né a lui né all’azienda. L’unica soluzione, cambiare mansione dopo aver fatto la stessa da sempre. Da qualche parte dovevano piazzarlo, senza che desse troppo fastidio. Rimettersi in gioco. Sarebbe stato più facile se non fosse per quella frustrante sensazione di essere tutto ad un tratto diventato scomodo, inutile, per quell’azienda alla quale aveva dato la vita. A cinquant’anni vogliono insegnargli il mestiere. Lui che il suo lo aveva sempre fatto bene, con dedizione ed impegno. Mai un’ora di ritardo, né un giorno di malattia o di permesso. Ci ha provato a fare un po’ il lavativo, l’assenteista, a fregarsene insomma. Perché all’inizio davvero non è stato facile. Ma se le cose sai farle solo bene, non hai scampo. Diversamente è impossibile, «dove tieni la mano devi tenere testa, dove tieni la testa devi tenere il cuore».

28 agosto 2013

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