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“L’albero di stanze”, il romanzo di una vita

Con “L’albero di stanze, il «romanzo di una vita», Giuseppe Lupo conferma di essere una delle voci narrative più originali dei nostri giorni. Inventore di leggende, moderno cantastorie, visionario dotato di una fantasia traboccante ma mai eccessiva, lo scrittore giunge con quest’opera alla sua maturità più piena e autentica. L’albero di stanze, dopo Viaggiatori di nuvole e Atlanti immaginari, sempre per Marsilio, chiude una trilogia affollata di personaggi, luoghi, incontri e sogni. Un ruolo fondamentale, il posto privilegiato in questi tre appassionanti volumi, è affidato alla “parola”: sussurrata, stampata, sfuggente, tramandata, cercata e inseguita, afferrata e impressa nel sacrario personale dei ricordi. Come in Viaggiatori di nuvole, anche qui la narrazione procede sui dicunt e la parola è necessaria per consegnare la memoria ai posteri. Ma stavolta a parlare sono i muri e parlano ad un medico sordo: su questa stramba ed originalissima intuizione si regge la narrazione di Lupo che con leggerezza trasporta i lettori in un altrove lontano, eppure così familiare a tutti.

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L’ultimo romanzo è un lungo e denso racconto di storie famigliari che si sintonizzano con il presente e riemergono prepotenti quando i personaggi decidono di fare i conti con il proprio passato. È una favola, imbevuta di realismo magico e della abituale geografia ascensionale che contraddistingue la scrittura dell’autore, che si sviluppa nel cuore di due città: Parigi, dove il protagonista Babele vive con la puntigliosa moglie Cécile (donna incapace di guardare oltre la punta del suo naso), e le figlie Marie Antoinette e Sophie, orizzonte verso cui tendere, grano tenero alle quali lasciare in eredità la meraviglia della storia della loro discendenza; e Caldbanae (l’amata Lucania dell’autore), dove si erge la «casa verticale», «il tirabusciò per bucare le nuvole». Attraverso la voce di Babele e la sua coinvolgente indagine, si riannodano i fili con il passato e il lettore scopre la storia dei Bensalem, famiglia di stirpe regale vissuta cento anni (bisnonno Redentore sostiene di essere addirittura un discendente di Balthasar Re Magio). Ma è la casa dove tutto ha avuto inizio, e dove il protagonista ritorna nei giorni che precedono lo scoccare della nascita del secondo Millennio, a rappresentare il centro gravitazionale del romanzo: l’albero di stanze, la «casa grande», il «termometro del tempo», è custode di parole e sussurri, memorie e voci, guerre e invenzioni, sogni e sentimenti. È il luogo dell’anima, dove l’oggetto si carica di ricordi vividi e il dettaglio apre voragini sull’interiorità. Qui parlano i muri, si ascoltano i silenzi, si ascende verso l’alto salendo ogni gradino. Aprendo la porta di ogni stanza, si precipita in un carosello di flashback e rievocazioni. Vi è un senso del tempo scrutato, percepito, gustato, fissato e vissuto: «il tempo è qualcosa che ci portiamo dentro, come il cibo, i ricordi, i sogni. Siamo noi il tempo» (p. 174).

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La narrazione fa la spola tra Avenue Émile Acollas, all’ombra della Tour Eiffel, e Caldbanae, il favoloso mondo di Lupo, ma la fervida fantasia dello scrittore riconduce alle radici, quelle che ogni famiglia tramanda e porta con sé ovunque: «ma adesso lascia che il racconto delle stanze si infili nelle mie orecchie. Non ci saranno altre occasioni e io credo che un uomo possa amare una e una sola casa: quella dove si arresta l’acqua del suo fiume, dove inizia e finisce la sua strada. Le altre sono un surrogato […] non è mai capitato di sentirmi come nel paradiso quadrato dove ho respirato la prima aria quarant’anni fa, in cima al ramo più alto e luminoso di casa Bensalem» (p. 81).

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Quella di Babele è la storia di un singolo che insegue non soltanto la sua storia, ma quella di tanti singoli appartenenti alla medesima generazione. Egli si pone all’ascolto di lontane leggende che tornano con la tenace e fiabesca insistenza di ciò che sta sottoterra o resta depositato nelle pietre di vecchi muri, «ossa del mondo» che posseggono un loro dictionnaire: «le parole sono pietre», sono scritte sulle pietre, insegnano le Sacre Scritture, e le parole innalzano e le pietre costruiscono. Le geografie raccontate da Lupo e le storie dei suoi personaggi posseggono (ed è questo uno degli aspetti che ormai rende ben riconoscibile la sua scrittura) la magica proprietà del favoloso esistere: è il potere della fiaba, inventata eppure così vera, alla quale si crede (o si ha necessità di credere) quasi fosse un atto di fede, anche se essa è totalmente immaginata. A garanzia di questo tempo vissuto e immortale, c’è Crocifossi, il guardiano della casa e del mulino, uomo senza età, già vivo all’epoca di bisnonno Redentore, «enigma che dura da quando è nato il mondo» (p. 166). È lui ad accompagnare Babele e lo fa rispettando i suoi tempi e stupori, momenti essenziali per la catarsi. Crocifossi era lì fin da quando l’albero di stanze era una «promessa di virgulto» e continua a rappresentare la presenza fissa e certa dell’intera epopea dei Bensalem: «se non ci fosse lui che riaffiora dai piani inferiori con il passo di un animale preistorico, se non ci fosse il suo fare vellutato, il suo sbattere le palpebre, la pazienza di non opporsi al trascorrere del tempo, rischierei anch’io di diventare invisibile come le voci che si inseguono in questa torre, mi rincorrono e si ficcano nelle orecchie con la promessa di non abbandonarmi più» (p. 125).

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Le storie dei personaggi sono gli innesti di quel gran bazar che è la casa dei Bensalem, ora in vendita e che occorre svuotare in fretta, perché presto diventerà un hotel a cinque stelle. Tocca al protagonista chiudere sia il secolo che i conti con il passato, risalire il tempo e la verticalità della casa di famiglia, cresciuta in altezza così come voleva il suo fondatore che ad ogni nato aggiungeva una stanza, un ramo: Apollinare, moglie di bisnonno Redentore, e i loro figli Albania, albergatrice e aspirante geografa; Alfeo, fabbro e suonatore di cetra; Salutare, mugnaio e droghiere; Sicurino, barbiere emigrante. Ai quali si aggiungono Adamantina, sorella di Redentore, allevatrice di pappagalli, e suo figlio Taddeo Sottana, inventore di macchine volanti, sposato con Sinforosa. Le vicende proseguono con i figli dei nonni Salutare e Crescenza: Primizia, Lucente, Floridia, i gemelli Cosma Maggiore e Cosma Minore e Forestino, poliglotta e padre di Babele. E la storia centenaria della famiglia Bensalem si rivela a Babele nello scampolo degli ultimi giorni che preannunciano l’alba del nuovo Millennio. E pian piano si sale l’albero fino ad arrivare alla sua stanza, quella della sua parabola, il tassello necessario per guarire, prima di tutto da se stesso («più salgo e più mi avvicino ai perché della mia vita», p. 107). Lo scrittore ricama su quotidianità vissute e Babele può farlo solo in quel luogo, dove è nata la vita che si porta dentro, dove «il cammino del sangue ti chiama» (p. 164). Lì e non altrove. In quella casa che gli appartiene «come il guscio alla lumaca o la corazza alla tartaruga: è la vita che te la mette addosso» (p. 173).

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L’abbondanza di suggestioni a volte arcaiche, altre ancora sovrannaturali, la ricchezza dei dettagli sensoriali, la dimensione magica intuita ma non spiegata, l’accettazione da parte dei personaggi, ma soprattutto del lettore, della logica della stramberia, della divergenza, dell’atemporalità, l’andirivieni tra passato e presente, tutto ciò non può non far pensare a Calvino, a Borges, a Márquez e a quel realismo magico al quale si accennava in apertura.

Sembra non esserci più finzione in alcuni stralunati e struggenti passaggi finali del romanzo, dove le profezie tramandate e ripetute come cantilene («Dio, una cosa ti dà e una ti toglie»), le verità famigliari sospese nel limbo del “non detto” e i dolori attraversati e non ancora risolti ricostruiscono un’identità finalmente libera da ciò che pesa ma che ancora palpita. È così che si sale fino ad arrivare al cielo, all’ultima delle stanze, o alla punta della Tour Eiffel, o all’inizio del nuovo Millennio: lì, in quel preciso punto, sia esso luogo o istante, dove le storie si ricongiungono e le memorie famigliari si fanno eternità, conservando la consistenza di un sogno. E una magica domanda-impressione pervade il lettore: «ma sono io a leggere il libro o è il libro a leggere me?».

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Stefania Segatori

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