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La coscienza di Zeno, un libro capace di ”scuotere una coscienza, farla svegliare e scalciare”

Quando a scuola mi sollecitavano a leggere La Coscienza di Zeno non arrivavo mai oltre Il vizio del fumo. Non riuscivo proprio a farmelo piacere. Più volte ho aperto il libro per leggerlo e più volte l’ho chiuso e lasciato sul comodino per giorni, a prendere polvere...

Quando a scuola mi sollecitavano a leggere La Coscienza di Zeno non arrivavo mai oltre Il vizio del fumo. Non riuscivo proprio a farmelo piacere. Più volte ho aperto il libro per leggerlo e più volte l’ho chiuso e lasciato sul comodino per giorni, a prendere polvere. La Coscienza di Zeno fu il motivo per cui il mio diploma di maturità classica porta scritto 98/100.

Non riesco a leggere ciò che mi sta antipatico, è più forte di me. Per me che amavo lo “spirto guerrier” di Ugo Foscolo, Zeno Cosini era un vigliacco e un bugiardo. E se non fossi mai andata oltre quel primo capitolo il mio parere su di lui non sarebbe cambiato. E infatti, rileggendo quel capitolo in questi giorni vi ho indovinato il motivo della mia antipatia.

Zeno Cosini tenta sempre di giustificarsi, di spogliarsi della colpa. Sin dall’inizio, sin da subito, ciò che preme alla sua matita (matita, non penna) è dimostrare la sua innocenza agli occhi che lo guardano con freddezza, gli occhi del padre, gli occhi di Ada. “Egli era morto e io non potevo più provargli la mia innocenza!”. E molte pagine dopo, “Essa ci abbandonava e mai più avrei potuto provarle la mia innocenza”. E se avessi ancora 16 anni, se fossi ancora nel mio paesino sperduto della Calabria, se non avessi mai conosciuto uno dei tanti Zeno Cosini, se non mi fossi scoperta io, per prima, come lui, continuerei a giudicare con durezza Zeno.

Ma il tempo passa e la polvere si è posata su quel libro abbandonato sul comodino e ora riesco a guardare Zeno Cosini con compassione e con solidarietà. In Zeno il senso di colpa è lacerante. Colpa e innocenza segnano le sue memorie. Zeno Cosini è colpevole perché non è in grado di praticare un’innocente crudeltà, ma nasconde tutta la sua vita dietro un velo di colpevole innocenza. Se solo avesse avuto il coraggio di spingere Guido giù dal muricciolo quella notte sul Belvedere, se solo avesse ammesso di voler vedere il padre morire, se solo fosse riuscito a dire di amare Ada, di odiare Guido. Forse, per lui, ci sarebbe stata salvezza.

E così, i capitoli più belli de La coscienza sono quelli in cui la penna lacera la carne in modo spietato e riesce ad andare fino in fondo. Amo Zeno Cosini quando riesce a essere onesto. Onesto fino in fondo. Quando prende Augusta in malo modo e le chiede di sposarlo perché le due sorelle hanno rifiutato, quando, nello stanzino buio, ad Ada che gli chiede “Hai sofferto tanto?”, “Ficcai subito l’occhio nell’oscurità del mio passato per ritrovare quel dolore e mormorai: -Si!”. Zeno Cosini sa, è cosciente, sente dentro sé quell’onorevole crudeltà, ma il mondo sano, la sana società gli impongono implicitamente l’omissione, il silenzio.

La società vuole essere buona, vuole essere casta e pura, vuol che si dicano le cose al momento giusto, che si pianga a un funerale e si rida quando si è tra amici. “Se non facevo altro che quello che tutti volevano!” protesta Zeno. La coscienza è la sua malattia. La crudeltà è scomoda, richiede il coraggio di guardarsi dentro e sapersi scovare nell’abisso di noi stessi. Zeno è sano perché sa guardarsi dentro. Ma questa sua capacità si trasforma subito in colpa e in inettitudine quando si scopre non pronto ad affermare la sua sana crudeltà. Zeno è malato perché il mondo lo vuole sano. E lui quel mondo lo ama. Si, lo odia anche. Ma lo ama. Vorrebbe sentirsene parte. E ci riesce. Sposa Augusta, diventa un marito amorevole corredato di amante, sa essere un fratello per Ada, si occupa di Guido. È l’uomo migliore nella famiglia Malfenti!

Ma dentro di sé non riesce a indossare la maschera della convenzione. Tutta la sua vita è una farsa da cui non sa congedarsi. Qui sta l’inettitudine di Zeno Cosini. Ed ecco i suoi propositi, ed ecco i suoi ritardi, il suo non saper portare a termine niente. Non ho letto testi critici sulla Coscienza di Zeno. Ma penso che in tanti abbiano dato un nome alla malattia di Zeno, Narcisismo. Disturbo narcisistico della personalità. Cito solo uno dei tanti indizi che mi fanno pensare a questo disturbo: “… e per qualche giorno lascio che m’aspetti.” I narcisisti fanno così, non riescono a concludere. Né nel bene, né nel male.

Si, se mi piacesse etichettare gli uomini, direi che Zeno è un narcisista. Ma un’etichetta non identifica quell’uomo nella sua specificità, un’etichetta non lo salva. Quando ho finito di leggere La coscienza di Zeno la notte non sono riuscita a dormire. E ho pensato che un libro degno di questo nome dovrebbe essere così. Dovrebbe saper scuotere una coscienza, farla svegliare e scalciare. Devo ringraziare un’insegnante per questo dono. Perché se non l’avessi incontrata avrei letto Italo Svevo sui riassunti di Wikipedia. Ma quando, alla fine del suo “Fuori programma”, l’ho vista indugiare in silenzio e abbracciare il libro di Zeno, ho amato anch’io quel libro di amore riflesso. Quel legame fisico tra lei e il libro mi ha fatto venire la voglia di leggerlo. Ora che l’ho letto posso dire anch’io, insieme a Italo Svevo, che “La Coscienza è un’autobiografia e non la mia”, o forse la mia, forse di qualsiasi uomo che abbia volto lo sguardo all’interno.

Anna Rita Rossi

30 gennaio 2014

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