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Raul Montanari, l’adolescenza come età metafisica e la perdita dell’innocenza nel romanzo Il regno degli amici

Raul Montanari è − fra molte altre cose − autore di numerosi romanzi e docente di scrittura creativa. La sua opera più recente è Il regno degli amici (Einaudi Stile libero)...

Raul Montanari è − fra molte altre cose − autore di numerosi romanzi e docente di scrittura creativa. La sua opera più recente è Il regno degli amici (Einaudi Stile libero).

 

Ho il piacere di intervistare di nuovo Raul Montanari, per parlare con lui del suo ultimo romanzo, Il regno degli amici (Einaudi Stile libero). Un romanzo per il quale vorrei evitare cliché come romanzo di formazione e noir, perché questo bel libro, che racconta una bella storia, con bei personaggi, è, appunto, un bel libro, è letteratura e basta. Se proprio volessi usare un’espressione efficace e riassuntiva, direi, come ho detto a Raul nel complimentarmi con lui mentre lo leggevo, che racconta con grande misura e direi con grazia la perdita dell’innocenza. E su questo vorrei sollecitare le riflessioni dell’autore.

La narrativa è un mezzo molto adatto a esplorare e mettere in scena il cambiamento, e infatti questo romanzo parla di un cambiamento radicale nelle vite dei protagonisti sullo sfondo di un mutamento altrettanto radicale nella vita di tutti noi.

Ho scelto l’estate del 1982 perché l’Italia aveva appena vinto il Mundial spagnolo, e quell’evento festoso ha avuto, retrospettivamente, il sapore di un congedo. Sulle immagini del presidente Pertini, ex partigiano, che esultava ai gol di Paolo Rossi e compagni, si chiudeva la stagione degli anni di piombo e si apriva quella della Milano da bere. Da una società relativamente semplice, ancora divisa fra poveri e ricchi, fra proletariato (la classe a cui appartengono i quattro eroi del libro) e borghesia, una società percorsa da ideologie che ambivano a trasformarla, si passava a un mondo dominato dalle nuove tecnologie: il computer, che qui compare proprio alla fine del romanzo, e il cellulare. Da qui l’abbandono graduale delle ambizioni rivoluzionarie a favore di quello che all’epoca venne definito il “riflusso”, il ripiegamento verso il privato.

I ragazzi vivono la loro avventura nello scenario quasi western della periferia a Nordest di Milano in un modo molto fisico, perché allora non solo non si usava ancora il cellulare ma si usava abbastanza poco anche il telefono fisso: uno usciva di casa e andava a cercare gli amici. Un modo di stare insieme molto diverso da quello di oggi, una socialità immediata e diretta, lontana da quella mediata dai social network e dagli smartphone.

Il libro si può dividere in tre parti. Nella prima seguiamo l’avventura entusiasmante della conquista e difesa del Regno, che poi non è altro che una stamberga sulle rive del naviglio Martesana, non a caso il canale milanese più povero e pittoresco, lontanissimo dal glamour dei navigli dell’happy hour e della movida. Nella seconda parte i ragazzi incontrano un’adolescente bellissima, scontrosa come un animale selvatico, che con il suo fascino rompe gli equilibri dentro il gruppo. Nella terza parte, dopo un evento drammatico, la storia assume cadenze più serrate e dure, in un crescendo che culmina prima in quella che giustamente chiami perdita dell’innocenza, e poi in un finale aperto. Anche alla speranza.

 

Ho sentito vivi e vicini, corporei quasi, i personaggi del tuo libro. Nel 1982 ero giovane ma non adolescente, ero talmente adulta, per dirne una, da avere già un lavoro. Eppure mi sono immedesimata in quei ragazzi − Demo, che narra la storia, Fabiano, Ric Velardi, Elia detto il Profeta − che in una torrida estate milanese fanno di una casa abbandonata il loro covo, il loro regno, come lo chiamano loro (la ricerca del nome rimanda, senza citarlo, al titolo di un brano degli Who, Love reign o’er me), teatro di bevute, di fumo, di riti masturbatori, con la colonna sonora sparata da un radioregistratore Aiwa. Forse perché lo sguardo che gli adolescenti posano sul mondo è sempre uguale e la perdita dell’innocenza, pur nella varietà infinita delle vie attraverso le quali vi si giunge, fa soffrire e crescere sempre nello stesso modo?

Sono abbastanza convinto che ci siano delle caratteristiche invarianti, che rimangono comuni agli adolescenti di ogni epoca. Tanto per cominciare, è l’età della vita in cui uno incontra se stesso una volta per tutte. Anche a quaranta o sessant’anni tu sarai sempre quella persona lì: il nucleo di ciò che chiami Io, con tutte le sue paure, i suoi sogni, i suoi bisogni, si è formato in quegli anni.

Poi l’adolescenza è anche quella che io chiamo l’età metafisica: quella in cui ti confronti con i grandi temi esistenziali che da piccolo non eri ancora in grado di capire, e che crescendo verranno piano piano schiacciati in un angolo da tutte le minuzie quotidiane, le rogne, i doveri, gli impegni. Prendi la morte, per esempio. Un ragazzo contempla questo abisso con una purezza che in seguito non avrà mai più. Un adolescente pensa alla morte in sé, al grande mistero dell’esserci e non esserci; un adulto pensa alla vecchiaia, pensa a come morirà (starò bene fino all’ultimo o sarò malato? Avrò vicino qualcuno? Soffrirò?).

L’adolescenza è l’età dell’intensità, e non a caso i ragazzi del libro, come tutti, ascoltano musica di enorme coinvolgimento emotivo, che richiede un ascolto totalizzante. È l’età del mistero, e infatti il narratore, Demo, è ossessionato da un’enigmatica e minacciosa presenza nella casa dove abita, e tutta la narrazione è cosparsa da brividi e da una presenza di elementi fantastici, al punto che un noto critico, esagerando, ha parlato addirittura di romanzo di formazione “gotico”.

È anche l’età in cui si impara a ridere. Credo che questo romanzo sia il più comico che ho scritto; comico e non ironico: non cercavo il sorriso, ma proprio la risata, quella di pancia, quella a bocca aperta e cuore spalancato dei ragazzi.

 

Il romanzo tocca molti temi interessanti senza mai banalizzarli: senza la pretesa di enumerarli tutti, cito la scoperta dell’eros, le dinamiche di gruppo, l’emarginazione e la solitudine nelle metropoli. Quando si concepisce una storia l’autore non pesa gli ingredienti come se si accingesse a cucinare una pietanza, però, man mano che la storia si dipana, si vanno chiarendo e ampliando le implicazioni psicologiche e sociologiche che i personaggi e la trama recano con sé. In che modo, durante la stesura del tuo romanzo, è avvenuto questo processo che io chiamo di emersione delle tematiche?

Esattamente come lo descrivi. I libri in cui l’autore parte da una tematica e inventa una storia e dei personaggi che la rappresentino sono spesso aridi. Dal punto di vista della forza narrativa, è molto meglio che un autore cominci a essere visitato, direi posseduto da una storia che vuole a tutti i costi venire raccontata. I temi, la profondità, perfino quello che ancora qualcuno chiama “il messaggio” vengono fuori da soli, scrivendo, all’incrocio fra le esigenze della narrazione e la visione del mondo dell’autore.

 

Tra le figure adulte del romanzo, particolarmente interessante lo zio Rainer, presenza fondamentale per Demo, l’autentica presenza paterna capace di accogliere senza giudizi le angosce del nipote, e che sembra incarnare l’ideale di una maturità ancora in grado di capire come vede il mondo un ragazzo di sedici anni senza per questo essere un patetico eterno adolescente.  È questa l’idea di paternità di Raul Montanari?

In realtà è proprio l’idea della “ziità”! Mi spiego meglio.

Ho sempre notato che il rapporto verticale, ortogonale fra genitori e figli è talmente intriso di senso del dovere, di ansia, di proiezioni (vorresti che tuo figlio fosse e avesse quello che tu non sei stato e non hai avuto), che raramente crea una vera complicità. Invece il rapporto con una figura come quella dello zio si potrebbe definire diagonale: se immagini l’albero genealogico della famiglia e tracci una linea che congiunga zio e nipote, questa linea sarà appunto diagonale. Come dice proprio il personaggio adorabile di Rainer, lo zio ti può concedere molto più di quello che ti concederebbe un padre, ma se ti vedesse fare una grossa cazzata interverrebbe. Ed è esattamente quello che succede nel romanzo: lo zio Rainer agisce quasi come un deus ex machina per cercare di tirare Demo fuori dalla situazione terribile in cui si è trovato.

 

Qualcosa su Milano, infine. Quando un luogo diventa qualcosa di più di un’ambientazione, per essere in qualche modo co-protagonista di una storia, faccio per divertimento un esercizio, provo a immaginare quella storia in un contesto diverso, un contesto che conosco. E con Il regno degli amici non mi è riuscito di calare la storia altrove. Che ne pensi, Raul?

A dirti la verità, il mio personale regno degli amici non è stato milanese. Le vicende raccontate sono, almeno nello spunto, la combinazione di due estati della mia vita, quella del ’72 (avevo tredici anni) e quella del ’75 (ero coetaneo di Demo), e in entrambi i casi ero sul lago d’Iseo, nella casa di mia nonna. Però sono convinto che ci siano luoghi, a Milano come altrove, in cui la città viene come sospesa, ed è possibile vivere avventure che hanno un sapore rurale, non urbano. In questo libro ci sono tutti gli elementi: la storia è ambientata sulle rive di un canale, non lontano dai binari della Stazione Centrale – fateci caso: vicino ai binari di una stazione c’è spesso una vegetazione incolta, ribelle all’asfalto, e si incontrano personaggi bizzarri e anche pericolosi. Il tutto in un momento in cui davvero la Milano delle periferie sembrava più campagna che città.

Dovessi comunque fare una sintesi, la Milano del libro, benché più “fisica”, più selvaggia e rustica di quella di oggi, alla fine non è così diversa dalla Milano dell’Expo, disastro annunciato: è una città irrimediabilmente brutta, piena di persone molto interessanti da incontrare e da raccontare. Una città affascinante, quasi commovente, proprio per questo.

 

Grazie, Raul, per il tuo tempo e le tue risposte.

Grazie a te!

 

Rosalia Messina

 

9 maggio 2015

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