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Pupi Avati ”Nel mio nuovo libro descrivo le mie due grandi passioni, la famiglia e il cinema”

Il grande regista bolognese si racconta ne “La grande invenzione”, autobiografia presentata questa settimana a Milano
Il racconto di un’infanzia, di una carriera, di passioni e di amicizie. Il racconto di una vita. E’ questo “La grande invenzione”, l’autobiografia di Pupi Avati presentata questa settimana alla libreria Rizzoli di Galleria Vittorio Emanuele II a Milano. Due sono i fili conduttori di tutto il racconto, identificabili nella più grande passione del regista bolognese, quella per il cinema, e nella figura più importante della sua vita, la madre. 
 
IL NOME – Noto al grande pubblico come Pupi, il vero nome di battesimo è Giuseppe. La leggenda della derivazione del nomignolo ha origini lontane “Pupi è il nome di un austriaco, di cui mia madre da giovane era segretamente innamorata” spiega il regista. “In realtà questa storia l’ho inventata io, si tratta di un espediente per giustificare questo soprannome che da bambino costituiva un grande problema, e da adulto ancor di più, se consideriamo che in famiglia mia moglie si chiama Nicola e il nostro cane Filippo”. 
 
LA MADRE – Il libro si apre con una pagina scritta in corsivo, che narra di un sogno in cui l’autore incontra Lucio Dalla e a cui chiede se in Paradiso abbia incontrato la madre. Alla risposta negativa, Avati incita l’amico a cercarla meglio, non potendo credere che una donna così buona possa essere in luogo diverso dal Regno dei cieli. La figura della madre riveste un ruolo centrale all’interno della vita, dell’autobiografia e della filmografia di Pupi Avati. “Mia madre era una donna intelligente e forte, come tutte le donne rimaste vedove prematuramente. Aveva un fortissimo senso della provvidenza ed era sempre molto positiva: anche quando le cose volgevano al peggio, interpretava questi avvenimenti come una possibilità per migliorarsi”. L’autore prova un forte senso di colpa nei confronti della madre, a cui teme di non aver dedicato il tempo adatto. All’interno dell’autobiografia la figura della madre emerge in modo autonomo ed indipendente. Si tratta di una donna di basso lignaggio che, al momento del matrimonio con il padre di Avati, di condizione economica nettamente diversa dalla sua, ha dovuto I tratti di questa donna emergono in modo preponderante in molti dei film del regista bolognese, ed in modo particolare ne “La seconda notte di nozze”. 
 
IL RAPPORTO CON LUCIO DALLA – Il primo episodio del libro è proprio quello che narra del rapporto tra Avati e Lucio Dalla. Entrambi bolognesi, si incontrarono in un’occasione molto particolare, come ben descritto dall’autore stesso: “Io da giovane volevo essere un suonatore di clarinetto jazz. Ero il miglior clarinettista di Bologna, assoldato in una band che faceva concerti in tutta Europa. Un giorno mi mandarono ad ascoltare dei ragazzini che suonavano. Ce n’era uno basso, per niente bravo a suonare. Gli diedi qualche indicazione per lo meno su come tenere in mano lo strumento. Dopo poco tempo lo ritrovai al mio fianco, a suonare con me. Ad Amsterdam fece il suo exploit: un assolo che fece rimanere tutti a bocca aperta. Da quel momento in poi la mia carriera da clarinettista prese le forme di una parabola discendente. Contro la mancanza di talento non c’è nulla da fare. Io non ero amato dalla musica come io amavo lei”. 
 
LA PASSIONE PER IL RACCONTARE STORIE – Ciò che emerge sia dall’autobiografia che dal cinema di Avati è la sua grande passione e abilità nel raccontare storie. Nel libro l’autore afferma come il cinema gli abbia permesso di trasferire molte delle vicende di vita vissuta in opere cinematografiche. Alcuni dei suoi capolavori, come Festa di laurea del 1985, sono tratti da esperienze di vita vissuta. Il film nasce proprio da un episodio vissuto in prima persona dal regista. “Nonostante non fossi un alunno modello, mia madre insistette perché mi iscrivessi all’università, alla facoltà di scienze politiche di Firenze. Nel giorno in cui dovevo sostenere il primo esame, storia delle dottrine politiche, mi accorsi che l’intero condominio stava organizzando una festa in onore di questo grande avvenimento. L’esame fu un vero disastro, non risposi a nessuna domanda. In treno, tornando a casa, ripensai alla festa che mi attendeva, alle aspettative di tutti nei miei confronti. Così decisi che la valutazione della mia prova fosse un dignitoso 26, scrissi il voto sul libretto e lo firmai. Essere festeggiati per una cosa che non hai fatto è terribile. Ed è proprio questo il messaggio che ho voluto trasmettere nel mio film”. 
 
L’AMORE PER IL CINEMA – Avati inizia con film molto strani ma interessanti, percorsi da una vena quasi horror, come Balsamus, l’uomo di Satana, ispirato al conte Balsamo di Cagliostro, seguito da L’arcano incantatore e Il Nascondiglio. Il regista spiega come questa passione per il gotico e l’horror sia derivata dalla cultura contadina della paura, inculcatagli negli anni dell’infanzia attraverso storie e racconti. Il genere di Avati si è poi evoluto, come già detto, verso la narrazione di argomenti ispirati alla vita vissuta e alle persone della famiglia che lo circondavano, come la figura della madre che emerge ne La seconda notte di nozze: “Quando stavamo facendo l’elenco del cast per girare il film era una giornata molto calda a Roma. Io mio fratello e Maurizio Michetti avevamo già individuato tutti i protagonisti, ad eccezione dell’attrice che avrebbe dovuto interpretare il ruolo della madre. L’elenco di nomi era ricco di personalità illustri, da Stefania Sandrelli a Claudia Cardinale. Si trattava però di personaggi che avevano già dato tanto al mondo del cinema. Così, complice anche i bicchieri di troppo, azzardai il nome di Katia Ricciarelli. La produzione si schierò strenuamente contro la mia scelta. Lì capii che avevo intrapreso la strada giusta. E infatti l’interpretazione della Ricciarelli fu a dir poco magistrale.”
 
26 aprile 2013
 
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