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Premio Italo Calvino, resi noti gli otto finalisti

Rese note le opere finaliste della XXVI edizione del Premio Italo Calvino. Il Comitato di lettura, fra cinquecentosettanta concorrenti, ne ha selezionati otto, dopo letture incrociate e numerose discussioni...
Il Comitato di lettura del Premio letterario rivolto agli scrittori esordienti ha reso note le opere finaliste della XXVI edizione

MILANO – Rese note le opere finaliste della XXVI edizione del Premio Italo Calvino. Il Comitato di lettura, fra cinquecentosettanta concorrenti, ne ha selezionati otto, dopo letture incrociate e numerose discussioni. L’appuntamento per la Premiazione è venerdì 19 aprile alle ore 17.30 al Circolo dei lettori di Torino.

I FINALISTI – Due sole le donne in finale, ma di straordinaria intensità di scrittura e di pensiero. Si tratta in genere di testi complessi, di inconsueto valore e di indubbia originalità. Talora non si può neppure parlare di romanzo, ma sicuramente di letteratura, come nel caso di Cartongesso, un’appassionata invettiva contro il degrado antropologico, paesaggistico e linguistico dell’odierno Veneto ex miracolato (ma in realtà il discorso si allarga all’Italia tutta) che trova inedite forme espressive nelle quali i vari registri si fondono e si confondono.

FRAMMENTI DI DIALETTO E RACCONTI DI DONNE
– Emergono spezzoni e frammenti di dialetto, come in altri due testi: il Breve trattato sulle coincidenze di Domenico Dara e Le piene di grazia di Carmen Totaro. Il primo, dal profumo d’antan, è l’opera sicuramente più lieve e garbata, a suo modo deliziosa, percorsa da carsiche nostalgie. Un postino, amante di cabalistiche coincidenze, cerca di intervenire nelle vite degli altri, alleviando sofferenze e favorendo amori, in un paesino calabrese un po’ fuori del tempo. Le piene di grazia è invece un testo di potenza drammatica e di azione condotta all’estremo. Parte da un fatto di cronaca nera e si snoda colmo di efferatezze: l’"osceno" è in scena in una Puglia dall’aura criminale dove la criminalità si insinua nelle pieghe del quotidiano. Ciò che dà un tocco singolare, e insieme spaesante, al testo è la grana gelidamente oggettivante della scrittura, pur nella sua postura femminile. L’autrice, non a caso, è una donna, come donna è l’autrice di un altro testo densissimo, I costruttori di ponti. La protagonista, di famiglia altoborghese ‒ un perfetto esempio del complesso di Elettra: ama il padre e odia la madre ‒, realizza dapprima una full immersion nella musica di Mahler eseguita dal padre direttore d’orchestra, per poi annullarsi in una macabra esperienza lavorativa ‒ resa con icastica e allucinata evidenza ‒ in un’azienda che tratta carne di coniglio. Solo alla fine riuscirà a recuperare un incerto e fragile equilibrio. Ne La donna dell’uomo che girava in tondo di Stefano Perricone lo stile è merito precipuo, in un lungo monologo magistralmente condotto. Una sorta di parabola in cui la protagonista, prima bambina poi adulta, dopo una serie di peripezie è rigettata, alla fine, nell’ingrata situazione di partenza: il pirandelliano "come tu mi vuoi" potrebbe essere il suo motto, ma il suo inesausto adeguarsi agli altri non la porterà alla salvazione.

RACCONTI EROTICI E IMPEGNATI – Brancola nel buio anche Carlo De Rossi, il narrante del Ventre della regina, un educatore che cerca la propria via d’uscita in una caleidoscopica assunzione di maschere e di esperienze ‒ a sfondo spesso erotico (il ventre della regina è appunto il caldo e traditore grembo di una femme psichiatra) ‒, fin quasi a perdere la nozione del sé. Professionista del sesso è lo gigolò le cui avventure sono narrate in Nomi, cose e città. Suo logo, per così dire, è una smagata sprezzatura, un’intelligenza cattiva, una malinconia verso un passato che riaffiora a intermittenza, il cui simbolo è il gioco infantile cui allude il titolo. Donne mature, più o meno abbienti, lo vedono come lo strumento per realizzare i loro inconfessati desideri o magari semplicemente il loro inconfessabile desiderio di affetto. Una scrittura nervosa valorizza perfettamente quest’epica di un eroe dei nostri tempi, un eroe del libero mercato. Come fossi solo DI Marco Magini ci precipita nell’incubo del massacro di Srebrenica, raccontato da tre personaggi: un giudice del Tribunale penale internazionale, un soldato olandese del contingente Onu di interposizione, un miliziano serbo-bosniaco. La forza del libro è nella materia stessa e nell’abilità dell’autore di penetrare nelle tre psicologie con somma sinteticità; riuscitissima la rappresentazione della violenza etnica, cui tutti sembrano destinati a subordinarsi, in un vortice di ataviche pulsioni e di cedimenti della volontà. Anche qui, comunque, è in scena un’umanità mentalmente fragile e indifesa, pronta a discendere la china.

10 aprile 2013

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