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Vittore Buzzi, ”Il World Press Photo scrive la storia del reportage”

Al World Press Photo di quest'anno si iniziano a vedere, nelle categorie di Ritratto, foto più vicine all'arte contemporanea che al reportage classico, una grossa novità rispetto al passato. È questo l'aspetto della presente edizione del premio che ha maggiormente colpito Vittore Buzzi, fotografo italiano vincitore del secondo premio per la categoria Sports Feature Stories...

Il fotografo italiano vincitore del secondo premio per la categoria Sports Feature Stories ci presenta il suo lavoro e commenta la presente edizione del World Press Photo

MILANO – Al World Press Photo di quest’anno si iniziano a vedere, nelle categorie di Ritratto, foto più vicine all’arte contemporanea che al reportage classico, una grossa novità rispetto al passato. È questo l’aspetto della presente edizione del premio che ha maggiormente colpito Vittore Buzzi, fotografo italiano vincitore del secondo premio per la categoria Sports Feature Stories. Buzzi ci parla del suo lavoro, “Lone Chaw Lethwei Gym”, reportage sulla palestra del campione di lethwei, la box birmana, Lone Chaw.

È stata un’emozione vedere il proprio lavoro premiato al World Press Photo? Qual è il valore di questo premio?
Nel corso della mia carriera ho ottenuto molti altri premi sia nazionali sia internazionali, non solo per il reportage, ma questo è sicuramente un riconoscimento importante, e l’emozione nel vederselo assegnare è stata grande. Il World Press Photo dà un’esposizione mediatica enorme, inscrive il lavoro e il nome di un fotografo nella storia della fotografia di reportage.

Possiamo parlare del progetto premiato? Com’è nato?
Io mi sono sempre interessato, fin dai miei esordi nel campo della fotografia di reportage, agli sport minori. Avevo già realizzato diversi reportage sulla box, sia in Italia sia all’estero. Visto che accompagnavo un workshop fotografico in Birmania, ho deciso che mi sarei ritagliato un po’ di tempo per me, una volta partiti i miei allievi, per realizzare un progetto sulla palestra aperta da Lone Chaw, che è una leggenda del lethwei, la box birmana. Lone Chaw, dopo essere stato per tre anni di fila campione in tutte le categorie del lethwei, è ora a fine carriera e sta trovando una nuova strada per vivere: insegnare ai giovani e agli stranieri.

Può spiegarci le fasi di realizzazione di questo reportage? Quali difficoltà ha trovato?
Ho iniziato a preparare il lavoro già prima di partire, quando ancora ero in Italia – c’è una lunga progettualità dietro. Ho cominciato a cercare i contatti per poter essere presentato al campione e poter accedere alla palestra. È stato molto divertente. L’unica difficoltà, una volta sul posto, è stata che non volevano farmi salire sul ring per fotografare, perché avevano paura che potessi farmi male. Poi però è filato tutto liscio.

Cosa l’ha colpita di più della realtà da lei documentata?
Il bello di questi sport minori è soprattutto che vi si incontrano persone vere, guidate dall’amore, non dai soldi. Hanno una maniera di vivere che si avvicina di più a quello di noi persone comuni che non a quello delle star. Il loro è un lavoro pieno di passione e di gioia, nonostante si tratti di uno sport molto duro che segna profondamente il fisico di coloro che lo praticano. Come tutti gli sport, anche questo si può considerare come una metafora della vita: bisogna allenarsi duramente per vincere e ottenere la fama, e una volta conquistati questi risultati bisogna imparare a gestire quello che si è ottenuto. E poi bisogna anche essere capaci di reinventarsi quando si arriva alla fine di questo percorso: la carriera di un combattente non può durare per sempre, a 31 o 32 anni bisogna trovare altri modi di sopravvivere.

Tra gli altri lavori premiati, ce n’è qualcuno che l’ha particolarmente colpita e perché?
Due cose di questo World Press Photo hanno catturato innanzi tutto la mia attenzione: la massiccia presenza della guerra e l’elevato numero di italiani premiati. Su nove premi nella categoria Storie, gli italiani ne hanno portati a casa sei. Mentre l’editoria italiana è un po’ in crisi, i fotografi hanno la voglia e la capacità di raccontare, e hanno dei grossi riconoscimenti all’estero per la loro attività.
Un altro aspetto che mi ha colpito riguarda invece le categorie di Ritratto, nelle quali si inizia a vedere un tipo di fotografia che è più vicina all’arte contemporanea che al reportage classico. C’è una progettualità e una concettualità nuova all’interno delle immagini, che hanno determinato un cambiamento forte rispetto agli anni scorsi. Paolo Patrizi per esempio, che ha vinto il secondo premio nella categoria Storie, ha un approccio tipico della fotografia concettuale.

Visto che stiamo parlando di fotogiornalismo e di reportage, una domanda su un tema di attualità: il digitale e il fotoritocco non mettono in discussione il valore di testimonianza della fotografia?

Al World Press Photo no, perché bisogna consegnare i file Raw della fotocamera. Prima di confermare il premio, infatti, chiedono di visionare il grado di lavorazione delle immagini. Il lavoro di post-produzione viene accettato solo fino a un certo grado: sono ammessi interventi che riguardano le luci e le ombre, non interventi che vadano a modificare consistentemente parti dell’immagine. La valenza di documento resta molto predominante, le fotografie devono raccontare delle storie reali. Quest’anno ho visto qualche immagine modificata, qualcuna forse un po’ troppo, ma non ci sono stati stravolgimenti della realtà.

E un suo giudizio al di fuori del World Press Photo?

Vedo tante fotografie che puntano più sull’effetto visivo che sul messaggio. Mi capita di vedere sempre di più su internet immagini che sono belle, ma sono equiparabili a caramelle per gli occhi: non contengono niente di pensiero e sostanza. Queste per me hanno ben poco significato.
Se l’effetto è funzionale all’espressione che si vuole raggiungere, al messaggio, allora può essere utilizzato, sempre che però sia dichiarato. Se invece l’effetto è fine a se stesso e ha l’unico intento di stupire, il risultato sono fotografie di scarso livello, destinate a scomparire presto.

5 maggio 2013

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