Berlino Ovest, 1968. Un giovane con un passato di militanza, Ferdy Kaplan, ha sparato durante una manifestazione; uno studente è morto, ma il suo obiettivo – scopriremo – non era il ragazzo. Era Max Brod, l’uomo che ha consegnato al mondo l’opera di Franz Kafka. Da qui parte “Gli amanti di Franz K.“, nuovo romanzo di Burhan Sönmez (nottetempo, traduzione italiana di Paola D’Agostino), un libro che mette in scena un interrogatorio serrato e lo trasforma in un processo all’eredità di uno scrittore e al nostro modo di leggerlo.
Perché questo libro “adesso”
Sönmez è uno degli scrittori turchi più autorevoli della sua generazione (autore di Istanbul Istanbul, Labirinto, Pietra e ombra) e dal 2021 è presidente di PEN International. Negli ultimi anni la sua figura è diventata un crocevia fra letteratura e difesa della libertà d’espressione: un percorso che spiega bene perché abbia scelto un archivio conteso – quello di Kafka – come terreno narrativo.
Il romanzo arriva mentre mostre e nuove edizioni riportano Kafka al centro del discorso pubblico: dal percorso congiunto Bodleian Libraries – Morgan Library per il centenario (2024-25), che rilegge l’immagine di uno Kafka non solo ombroso ma anche sociale e ironico, fino alle discussioni sull’eredità legale dei manoscritti. In questo clima, “Gli amanti di Franz K.” suona come un atto di critica e d’amore insieme.
Un romanzo come palcoscenico
Sönmez costruisce il libro come un dramma a due voci. Davanti a noi ci sono Kaplan – giovane “posseduto” dai testi di Kafka – e il commissario Müller. L’arma del primo, però, sono le citazioni e l’ossessione; quella del secondo è la procedura. Il loro botta-e-risposta scava indietro nel tempo: l’amicizia d’infanzia con Amalya, il loro comune culto per Kafka, la scelta della lotta politica, la decisione di colpire l’uomo ritenuto colpevole di un tradimento (Brod).
La sorpresa – già nota nelle schede editoriali – è che il colpo non doveva raggiungere lo studente, ma il passante “anziano” accanto a lui: Max Brod. Da qui la domanda che il libro rimette sul tavolo: Brod è stato un traditore o un salvatore?
Le recensioni internazionali hanno colto bene questa impostazione teatrale-saggistica. Il Financial Times parla di una “meditazione sull’aldilà degli archivi”: un racconto in cui Sönmez, con flashback poetici e dialoghi “kafkiani”, interroga il paradosso che ha fatto nascere il mito Kafka – l’amico che non brucia, ma pubblica – e lo fa in un momento in cui mostre ed edizioni riaprono la discussione su chi possieda il futuro di uno scrittore.
L’articolo sottolinea anche un dato importante: questa è la prima opera di Sönmez scritta in curdo, arrivata ai lettori di lingua inglese grazie alla traduzione di Samî Hêzil (edizione Other Press), a conferma del valore “di frontiera” del progetto.
Di cosa parla?
La cornice è la Germania del ’68, quella delle piazze, delle cariche e dei tribunali. L’intreccio si apre in una stanza d’interrogatorio: Kaplan confessa di aver premuto il grilletto, ma respinge l’accusa morale – per lui il bersaglio era un altro. Seguono udienze, deposizioni, squarci di memoria: la casa di Cesare che accoglie “gli indegni” (artisti, ragazzi fuori standard), i club e i caffè dove si discute di libri, la formazione sentimentale di Kaplan e Amalya attorno a Kafka, e infine la freddezza con cui il poliziotto misura i fatti. La struttura è volutamente circolare: ogni risposta genera una nuova domanda su colpa, giustizia e letteratura.
Sönmez alterna registri: pagine di pura messa in scena (quasi una pièce radiofonica), inserti lirici, micro-saggi “per frammenti”. Il lessico si nutre di parole-chiave kafkiane (processo, colpa, legge, padre, città) e le sposta nel ’68 europeo, quando la politica chiede di scegliere e l’arte chiede di pensare. Il risultato non è un thriller, ma un giallo metafisico su chi ha il diritto di decidere della vita – e della morte – di un’opera.
Brod, Kafka, e la responsabilità di un amico: il fatto storico
La base documentaria è nota. Kafka, morto nel 1924, lasciò all’amico Max Brod l’istruzione di distruggere manoscritti e diari. Brod non obbedì: divenuto esecutore letterario, pubblicò Il processo (1925), Il castello (1926) e America (1927), aprendo la strada alla fortuna postuma dello scrittore praghese. È una delle “scelte” più controverse della storia letteraria del Novecento, verificate e riassunte dalle voci di riferimento dell’Enciclopedia Britannica.
La vicenda ha avuto lunghi strascichi legali. Dopo la morte di Brod (1968) i suoi archivi furono affidati alla segretaria Esther Hoffe, poi ereditati dalle figlie; nel 2016 la Corte Suprema israeliana ne decise il trasferimento alla Biblioteca Nazionale d’Israele, mettendo fine a un contenzioso decennale sul destino dei materiali. La stessa Biblioteca riassume oggi il nodo: Kafka chiese a Brod di bruciare i materiali, Brod li custodì e una parte è oggi conservata a Gerusalemme.
La domanda etica resta: Brod ha “tradito” o “creato” Kafka? Sönmez non la risolve per decreto; la drammatizza. Kaplan, nel romanzo, assolve Kafka e accusa Brod. Il commissario, più prosaico, vede un tentato omicidio. Fra i due, il lettore – chiamato a stabilire che cosa significhi “giustizia” quando il reato riguarda un patrimonio morale.
Sönmez lettore di Kafka: amore, rabbia, riconoscenza
Le interviste e le note di presentazione aiutano a capire l’intenzione di Sönmez. L’autore turco – curdo di origine, esule per motivi politici, poi rientrato – legge Kafka come cartina di tornasole del nostro rapporto con l’autorità. Non a caso ambienta la storia nel 1968: anno di processi reali, dove l’aula giudiziaria è casa del potere e palcoscenico della protesta.
È un modo di riconnettere Kafka ai suoi lettori politici (quelli che hanno fatto del termine “kafkiano” sinonimo di labirinto burocratico) senza rinunciare alla tensione affettiva: l’amore di Kaplan per Kafka è un amore da lettore, totalizzante, febbrile; lo capiamo proprio perché il romanzo lascia entrare la voce dei libri.
Il Financial Times individua qui il cuore del libro: non il “delitto” (che pure c’è), ma la questione degli archivi. A chi spetta l’ultima parola? All’autore, agli amici, ai curatori, allo Stato, ai lettori? Nel mettere in scena questa domanda Sönmez intreccia il suo ruolo di scrittore e di presidente di PEN International – organismo che difende libertà di scrittura e circolazione dei testi.
Com’è scritto: dialogo, aforismi, “montaggio”
Chi ha letto Istanbul Istanbul o Labirinto ritroverà in Sönmez una narrativa per enigmi chiari: periodi limpidi, punte di lirismo, un uso “musicale” dei silenzi. “Gli amanti di Franz K.” spinge più in là questa poetica e adotta una struttura a montaggio: nel procedere dell’interrogatorio si aprono finestre di memoria che non interrompono il ritmo, ma lo modulano; il lettore passa dal presente teso della stanza chiusa alla luce obliqua dei ricordi, senza mai perdere il filo dell’ossessione.
Un elemento interessante è il tono metateatrale. Il libro contiene citazioni e richiami, ma evita l’enciclopedia: Kafka si avverte, più che apparire. Anche Max Brod non è un personaggio-spiegazione: è soprattutto funzione narrativa (chiave di volta etica) e icona storica (l’uomo che non obbedì). È una scelta che preserva ambiguità e tensione.
Punti di forza e possibili attriti
La cosa che colpisce subito è l’impianto drammatico: non c’è il classico espediente d’apertura, ma un interrogatorio che diventa forma morale. Nel botta e risposta tra Kaplan e il commissario si deposita la vera domanda del libro: chi “possiede” un’opera dopo la morte dell’autore? Sönmez la mette al centro senza semplificazioni, lasciando che siano voci, memorie e documenti a tenere acceso il conflitto.
Funziona anche il dialogo con la Storia: il 1968, i tribunali, la piazza, l’Europa tagliata in due; tutto risuona nella stanza d’interrogatorio come un’eco che non passa. E poi c’è il momento giusto: il romanzo arriva mentre musei e biblioteche stanno riscrivendo l’immagine pubblica di Kafka—mostre, edizioni, carte—e questa cornice curatoriale amplifica l’effetto del racconto.
Naturalmente qualche frizione c’è, ed è anche ciò che renderà il libro molto discusso. Prevale il ragionamento sul plot: chi cerca un giallo giudiziario ad alta velocità potrebbe sentire che l’azione cede il passo alla disputa d’idee. Inoltre aleggia il rischio del “processo a Brod”: in alcuni passaggi l’atto d’accusa sembra affiorare. Va detto però che il romanzo tende a complicare, non a chiudere: la materia storica è controversa per natura e Sönmez ne fa un campo di domande più che un verdetto.
Intermezzo: una vita di Kafka in cinque quadri
Praga, 1883–1902. Kafka nasce e cresce nel quartiere ebraico di Praga, in una famiglia di lingua tedesca. L’ombra del padre autoritario—quella che esploderà nella Lettera al padre—diventa presto una matrice narrativa: ordine, colpa, legge.
Gli anni dell’ufficio. Laureato in legge, lavora in una compagnia di assicurazioni. Quel mondo di pratiche e scale senza sbocco entra nei romanzi come labirinto di carte e sportelli senza volto.
La scrittura come febbre. Pubblica poco, custodisce molto. Diari e lettere sono la sua officina. Alla morte, nel 1924, chiede all’amico Max Brod di distruggere tutto; Brod non obbedisce e pubblica. È lì che “nasce” il Kafka del secolo.
Le opere maggiori. Ne “La metamorfosi” (1915) il corpo tradisce e la famiglia non regge la “diversità”; nel “Processo” (1925) K. è accusato senza sapere perché e l’istituzione diventa destino; nel “Castello” (1926) un uomo chiede riconoscimento a un’autorità irraggiungibile. Attorno, racconti e parabole — Nella colonia penale, Davanti alla legge, Il digiunatore — che sono piccoli congegni perfetti su pena, soglia, sguardo pubblico.
Il dopo Kafka. La storia non finisce con la biografia. Nel 2016 una decisione giudiziaria chiude un lungo contenzioso sugli archivi (i “Kafka Papers”), destinandoli alla Biblioteca Nazionale d’Israele: la prova che l’autore postumo è ancora un caso vivo, e che un archivio non è un deposito neutro ma un vero campo di battaglia culturale.
Focus: i libri più famosi (riletti con Sönmez in testa)
“Il processo”: l’innocente davanti alla macchina
Pubblicato da Brod nel 1925, Il processo è il romanzo del senso di colpa senza oggetto: K. cerca la legge e trova una procedura. Nel romanzo di Sönmez, questa “procedura” risuona nell’interrogatorio: Kaplan non è K., ma ne eredita la posizione – è dentro l’istituzione, e la sua giustificazione non basta. È una lettura che restituisce l’attualità politica di Kafka: non “soltanto” esistenzialismo, ma critica delle forme del potere.
“Il castello”: il diritto di essere riconosciuti
Il castello è la storia di una domanda di riconoscimento che rimbalza su muri invisibili. Kaplan, che pretende giustizia per la promessa “tradita” di Kafka, è l’altra faccia di K.: uno che non chiede il timbro, ma pretende l’esecuzione di una volontà. La letteratura, qui, diventa campo legale.
“La metamorfosi”: il corpo come stigma
Gregor Samsa si sveglia “insetto”: un’allegoria così potente da essere diventata lingua comune. Nel romanzo di Sönmez il corpo vittima e colpevole è quello dello studente ucciso: il lettore si trova nella posizione scomodissima di empatia doppia (per il morto e per chi rivendica un delitto “errato” ma “giusto” nella propria logica). Kafka insegna a reggere l’ambivalenza.
Che cosa fa (davvero) Sönmez a Brod
Un rischio del romanzo – lo accennavamo – è la sovraesposizione dell’atto d’accusa: Brod come “colpevole” di aver tradito un testamento morale. Eppure, a ben leggere, “Gli amanti di Franz K.” non cancella ciò che la storia ci dice: senza Brod, Kafka forse non esisterebbe per noi. La stessa voce Britannica, che abbiamo citato, è inequivoca nel ricostruire l’atto editoriale grazie al quale oggi parliamo di Processo e Castello. Allora Sönmez che fa? Drammatizza la contraddizione: possiamo essere grati a Brod e disturbati dalla sua disobbedienza; possiamo visitare un archivio e sentirci in debito con un autore che non aveva chiesto spettatori.
Il Financial Times insiste su questo doppio movimento: omaggio e critica. È la postura più onesta verso i grandi autori: togliere loro l’alone iconico e riportarli alla vita dei corpi e dei documenti – là dove si contratta, si promette, si sbaglia.
Lettura politica
Si potrebbe leggere questo romanzo come una tragedia dell’archivio – e lo è. Ma è anche un libro politico. Il 1968 di Sönmez non è un fondale nostalgico; è l’anno in cui la piazza entra nel tribunale. L’interrogatorio non è solo un genere (dal noir al courtroom drama), è il luogo dove lo Stato decide chi è “giusto”. Kafka, con i suoi processi senza oggetto, aveva previsto questo scivolamento. Sönmez lo ri-mette in scena, ricordandoci che l’atto di leggere – e di conservare – è sempre un atto di potere.
