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Pierluigi Battista, ”Nel mio libro racconto il paradosso della vita”

Intervista a Pierluigi Battista, editorialista del Corriere della Sera e autore del libro ''La fine del giorno'' edito da Rizzoli. Il giornalista e scrittore ci racconta, senza retorica e con la delicata dignità che lo contraddistingue, i motivi che lo hanno spinto a scrivere un libro nel quale raccontare e dissacrare i paradossi della vita e dell'uomo...

L’editorialista del Corriere della Sera ci presenta “La fine del giorno”, una riflessione sulla vita e sulle contraddizioni che l’uomo si trova  affrontare

MILANO – Il mito del superuomo di dannunziana memoria inseguito con ostinata decisione grazie ai progressi della scienza ma che sconta l’essere impreparato alla vita. Nel libro “La fine del giorno”, edito da Rizzoli, Pierluigi Battista racconta con educata sobrietà e senza vittimismi l’amore che lentamente è scivolato via dalla sua vita. Già la copertina, con una sedia Adirondack in primo piano, raffigura il senso di dolce vuoto sopraggiunto all’improvviso ma prefigura anche l’idea di una flebile e paziente attesa. Perché il sentimento non muore con il corpo.

Come si riempie quella sedia vuota in copertina?
Ripartire è obbligatorio a meno che non si voglia proprio annullarsi. Uno può ripartire anche senza la scrittura. Diciamo che io vivo di scrittura e di lettura. Questa cosa l’avevo in testa già l’indomani della scomparsa di mia moglie, forse addirittura la covavo già durante tutti quei mesi di cure in cui avevo dentro tutti quei libri che mi avevo interessato. Però per tanti mesi non ho fatto niente, avevo una certa forma di pudore. Non volevo fare una sorta di ricordo di mia moglie altrimenti avrei scritto qualcosa per pochi amici intimi a tiratura limitata. Ho voluto raccontare un paradosso, raccontare la cosa più importante e dolorosa della mia vita. Non sapevo se era opportuno il caso di scrivere di questa cosa. Il senso è quello di mettere in luce un pezzo di una vita e anche una riflessione sul mondo in cui viviamo: la scienza, la medicina, le priorità, la vita, la morte.

Nel suo libro racconta anche il mito della giovinezza e della voglia di inseguire la vita. Quanto questo bisogno penalizza una visione distaccata della realtà?
Distaccata è un termine eccessivo. Il dolore ammutolisce, non fa parlare, la sua realtà ti schiaccia. Scrivere comunque è il tentativo di uscire da una prigione muta. Da qui a parlare di distacco ce ne passa. Non ho voluto scrivere un libro auto-terapeutico per lenire il dolore, se per quello me lo aumentava mentre lo scrivevo di notte, senza sottrarre neanche un minuto al mio lavoro. Non volevo far piangere. Mi scrivono tantissime persone che hanno avuto esperienze simili e che in qualche modo si riconoscono in questa auto-indagine. Però ogni storia è una storia a sé: come diceva Tolstoj tutte le famiglie sono infelici ma ogni singola infelicità è diversa da tutte le altre.

Rilegge anche in maniera diversi gli autori che hanno costellato la sua vita.
È evidente che quel paradosso sancisce un prima e un dopo. Certe scene che prima guardavo con diligente bonarietà, quasi di divertimento per certe pazzie, dopo mi sono sembrate del tutto vane. In alcuni casi anche patetiche e ridicole. Se prima mi muovevano un sorriso, quel paradosso l’ha smorzato se non fatto scomparire. Decisamente, come ho scritto, hanno creato in me anche una certa insopportazione, verso quella voglia di inseguire uno scampolo di giovinezza. Tutto questo ora mi sembra un po’ ridicolo. Invecchiate ma basta, siate saggi.


E parlando per paradossi, noi italiani siamo un popolo che legge poco ma nessuno – specie a livello politico – riesce a invogliare alla cultura e alla conoscenza. Come mai?

Credo che la politica sinceramente debba occuparsi di cose diverse che non siano l’impulso a far leggere le persone. La  politica ha compiti specifici e limitati e il suo ruolo non è quello di fare da educatrice degli italiani. Deve risolvere i problemi e creare le migliori condizioni perché le persone stiano bene. La politica si occupa già di troppe cose, dovrebbe ridurre il suo perimetro e dentro quel perimetro far le cose bene. Quello che potrebbe fare se mai è trovare un modo perché l’editoria non soffochi, curare le biblioteche pubbliche e garantire una buona istruzione pubblica.

9 aprile 2013

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