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Peter Gent e ”I mastini di Dallas”, un viaggio allucinato e profetico nel cuore oscuro dello sport americano

Il “sistema football” come metafora della nuova America degli anni Settanta, un paese violento e ricco di contraddizioni raccontato attraverso gli occhi di Phil Elliot, il flanker dei North Dallas Bulls, il quale “ha le migliori mani della Nfl e il corpo devastato dai placcaggi”. Parliamo de “I mastini di Dallas”...
Intervista al traduttore dell’edizione italiana del libro Roberto Serrai, il quale parla della bellezza del romanzo e del compito del traduttore, non sempre semplice, di mantenere fedele lo spirito del testo nella trasposizione dalla lingua originale all’italiano

MILANO – Il “sistema football” come metafora della nuova America degli anni Settanta, un paese violento e ricco di contraddizioni raccontato attraverso gli occhi di Phil Elliot, il flanker dei North Dallas Bulls, il quale “ha le migliori mani della Nfl e il corpo devastato dai placcaggi”. Parliamo de “I mastini di Dallas”, libro (quasi) autobiografico scritto da Peter Gent, campione di basket universitario e un flanker nei Dallas Cowboys degli anni Sessanta, quando “la difesa faceva ancora parte del gioco”. Scomparso nel 2011, la sua carriera negli anni Settanta si concluse prematuramente con un bilancio di due operazioni al ginocchio, varie dita e costole rotte e una serie di fratture del setto nasale. I mastini di Dallas è stato portato sullo schermo da Ted Kotcheff e Nick Nolte, ed è considerato uno dei ritratti più fedeli del professionismo sportivo. Roberto Serrai, traduttore dell’edizione italiana del libro, parla della bellezza del romanzo e illustra il compito del traduttore, non sempre semplice, di mantenere fedele lo spirito del testo nella trasposizione dalla lingua originale all’italiano

Che esperienza è stata per lei la traduzione di un libro così «appassionato» come «I mastini di Dallas»?
Mi sono divertito moltissimo. Venivo da alcuni lavori piuttosto impegnativi e I mastini di Dallas mi è sembrato una boccata d’aria. Non solo questo, ovviamente: è stato anche la prima occasione di collaborare davvero con persone che già conoscevo e apprezzavo e (senza alcuna piaggeria) di contribuire a un bel progetto editoriale. Nella collana Attese di 66thand2nd erano infatti già usciti, tra gli altri, uno dei miei libri preferiti di sempre, Shoeless Joe di William P. Kinsella (ricordo di aver profondamente invidiato il suo traduttore, Marco Rossari), e anche la nuova traduzione (di Giuliano Boraso) di un classico come Il colosso d’argilla, che avevo letto mentre traducevo The Professional di W.C. Heinz (Il professionista, Giunti 2012 – due libri diversissimi ed entrambi splendidi). Mi sono sempre piaciuti molto gli sport americani, anche nella loro apparente «alterità» (pensiamo alle infinite regole ed eccezioni del baseball, che pure nacque come passatempo per i soldati, e all’incredibile convinzione, radicata in tanti americani, che pure a livello professionista ci si giochi solo for the love of the game, e non per denaro): dicono tanto dell’identità di quel popolo, della sua cultura, di certe sue metafore, sottigliezze e contraddizioni. Mi è piaciuto, in questo senso, lavorare su un romanzo che poteva prestarsi a una doppia lettura: quella ingenua (è un termine tecnico, non un giudizio) del lettore che si appassiona a una storia, a dei personaggi, e vuole sapere «come va a finire», ma anche quella specialistica di chi veda in questo come in altri libri un’occasione per riflettere sulla propria identità attraverso lo sport. North Dallas Forty funziona bene in un senso e nell’altro, e spero che si possa dire lo stesso per I mastini di Dallas (per fortuna, inoltre, le due letture di cui sopra non si escludono a vicenda).

Quale è stata la sua impressione dopo la prima lettura in lingua originale del romanzo?
Sono rimasto stupito – piacevolmente. Da fan di Nick Nolte (oltre che di football) conoscevo il film (Ted Kotcheff, 1979), che vidi anni fa e del quale inizialmente mi ero anche procurato una copia, ma poi non ho voluto riprendere in mano per non esserne influenzato – soprattutto perché mi sembrava, a memoria, che il film (l’entertainment ha le sue esigenze) riprendesse la dimensione grottesca e farsesca della vicenda più di quella tragica (si pensi ai finali diversi). Invece, ho subito accostato il libro a certe cose di Hunter S. Thompson, per esempio un devastante reportage del 1970, «The Kentucky Derby Is Decadent and Depraved», ma anche il più noto Paura e disgusto a Las Vegas, del 1971. Prima e meglio di altri, Thompson aveva capito come il grande esperimento «solidale» della fine degli anni Sessanta fosse, oltre che finito, fallito, e la storia – in America ma anche altrove – ormai avesse preso un’altra strada: cinica, avida, indifferente, egoista, violenta e per certi versi mostruosa (per capire meglio quest’ultimo aggettivo consiglio di dare un’occhiata alle illustrazioni che Ralph Steadman realizzò sia per «The Kentucky Derby» che per Paura e disgusto, e poi magari sovrapporle ad alcune sequenze narrative del romanzo di Gent, per esempio quelle al Rock City durante e dopo il concerto di Little Richard). Insomma, mi è sembrato che I mastini (che è del 1973) potesse appartenere di diritto allo stesso ambiente culturale, e descrivesse con efficacia lo stesso passaggio storico – compresa la terribile violenza della guerra del Vietnam – conservando una propria personalità e dignità; senza essere, insomma, una semplice «imitazione» di Thompson. Questo me lo ha fatto apprezzare ancora di più.

Come può descrivere Phillip Elliott, protagonista e voce narrante del racconto? Le esigenze di traduzione hanno richiesto particolari adattamenti che ne hanno in parte modificato le caratteristiche originali?
Phillip Elliott è (come Charlotte, ma anche come David) una vittima del passaggio storico al quale accennavo poc’anzi. Se vogliamo usare un’immagine semplice, a differenza per esempio dei suoi compagni di squadra lui è come un burattino che – tuttavia – è in grado di vedere i fili che lo muovono, e quindi (in maniera più o meno consapevole) può reciderli, invece di accettarne – come fa, per esempio, Maxwell – tutte le implicazioni. Nel «sistema football», come lo definisce a un certo punto, e se vogliamo anche nella nuova America degli anni Settanta, per lui non c’è più posto – e si rende necessario, per quanto faticoso, trovare un’alternativa, una via d’uscita, o se vogliamo di fuga. Non si può non tifare per lui e per i suoi strambi ma sinceri sussulti di dignità. Per quanto riguarda la seconda parte della domanda, mi sento di rispondere di no. Abbiamo lavorato tutti con passione perché Phillip e la sua diversità – che è anche linguistica: si capisce già da come parla, che lui non è come gli altri – transitassero il più possibile indenni da una lingua all’altra.

Quali sono state le maggiori difficoltà riscontrate nella traduzione di questo testo?
Rendere nella maniera giusta la terminologia tecnica legata al football americano, senza dubbio. Ricordo, tanti anni fa, quando questo sport era ancora poco conosciuto nel nostro paese, le telecronache di Guido Bagatta e del «coach» Dan Peterson (io e mio fratello facevamo nottata a seguire il Monday Night Football e il Super Bowl). Allora si trattava anche di inventare un linguaggio per rendere comprensibili al pubblico italiano espressioni e situazioni molto ostiche. Alcuni equilibrismi di Peterson (come «formazione lupara» per shotgun formation) restano felicissimi, però ho dovuto tenere conto del fatto che oggi molte cose, anche in Italia, si chiamano per fortuna con il loro nome, e quindi ho dato una rinfrescata al mio lessico tornando a seguire qualche partita (su Sportitalia) e, soprattutto, frequentando il forum di Endzone Magazine.
Bisogna, però, fare una distinzione: nel libro (e nel football) ci sono espressioni che nascono per essere incomprensibili, e incomprensibili devono restare. Mi riferisco al modo in cui il quarterback «chiama» le varie azioni di attacco prima che queste inizino, per dare istruzioni ai suoi uomini. Per fare questo, ogni squadra usa un codice che solo i propri giocatori conoscono e sanno decifrare (non i giocatori dell’altra squadra, quindi, e nemmeno il lettore). Non bisogna preoccuparsi, dunque, se non si capisce cosa significhi, per esempio, «Rosso destra dive 41 G pull» – deve essere così. Quando il libro, tuttavia, passa a raccontare l’azione nel suo svolgimento, è importante che il lettore capisca quello che succede in campo, se non altro per apprezzare i gesti atletici (o gli errori) dei vari giocatori. Su questo sia io che la redazione siamo intervenuti con puntualità e discrezione, senza snaturare il testo, e infine è stato deciso di inserire un glossario (anzi, un Breviario), in appendice, per chiarire ulteriormente le principali dinamiche del gioco.

Quale passaggio del libro l’ha particolarmente colpita e perché?

Il libro è denso di passaggi molto intensi; è difficile sceglierne uno. Tutta l’interazione tra Phillip e Charlotte è resa con una certa eleganza e bellezza, e io mi sono sforzato di conservarle entrambe. Penso, per esempio, a quando Phillip la guarda e, in controluce, ne intravede la silhouette sotto gli abiti leggeri. È un momento, come dire (anche tenendo conto della sensualità che corre sottotraccia), puro: una rottura fortissima con la notevole, e a tratti insostenibile, grevità del mondo in cui Phillip si ritrova a dover vivere. Penso anche a quando Phillip definisce se stesso e gli altri giocatori come «parte dell’equipaggiamento, materiale da inventariare», nell’economia di uno sport che è diventato ormai solo business ed è, soprattutto, del tutto spersonalizzato. Chi leggerà questo libro con attenzione capirà (temo) come questa, ed altre delle sue riflessioni sul football, siano in realtà universali e applicabili, nella sostanza, anche ad altre attività e situazioni. Per quanto mi riguarda, per esempio, Phillip mi ha fatto molto riflettere sul mio lavoro di traduttore (e anche su quello di americanista). Ma questa è una storia diversa.

31 agosto 2013

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