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Perissinotto, ”La mia speranza è che lo Strega porti i libri all’attenzione della gente”

Non si è ancora ripreso dall'emozione di quando gli hanno comunicato la sua candidatura allo Strega, ed eccolo già in testa alla cinquina dei finalisti. ''Non me lo sarei mai aspettato'', dichiara Alessandro Perissinotto, l'autore de ''Le colpe dei padri''. Al termine dell'articolo è possibile leggere un estratto del libro...
L’autore che guida la cinquina dello Strega ci parla della sua corsa al Premio e del suo libro, “Le colpe dei padri”

MILANO – Non si è ancora ripreso dall’emozione di quando gli hanno comunicato la sua candidatura allo Strega, ed eccolo già in testa alla cinquina dei finalisti. “Non me lo sarei mai aspettato”, dichiara Alessandro Perissinotto, l’autore de “Le colpe dei padri”, che ci parla qui della sua corsa al Premio e del libro. Il protagonista della storia è Guido Marchisio, torinese, 46 anni, un uomo arrivato. Dirigente di una multinazionale, appoggiato dai vertici, compagno di una donna molto più giovane e bellissima: la sua è una vita in continua ascesa. Fino al 26 ottobre 2011, una data che crea una frattura tra ciò che Guido è stato e quello che non potrà mai più essere. Quella mattina, infatti, un incontro non previsto insinua in lui il dubbio: possibile che esista da qualche parte un suo sosia, un gemello dimenticato? Giorno dopo giorno, l’esistenza dell’ingegner Marchisio inizia, prima piano poi sempre più velocemente, a percorrere la stessa rovinosa china della sua azienda e della sua città.

Lei è in testa alla cinquina del Premio Strega, davanti anche Walter Siti, che era dato per favorito. Se lo aspettava? È un’emozione per lei figurare lì?
Non me lo aspettavo affatto. Il mio obiettivo, come credo quello di chiunque, era entrare nella cinquina: non mi sarei immaginato di essere il primo. Ma se è per questo, all’inizio, non mi sarei mai nemmeno immaginato di venire candidato al Premio Strega.

Quali sono le aspettative rispetto a questa corsa?

Sto volutamente evitando di crearmi aspettative, perché quello che più desidero è vivere con serenità questo momento. Quello che deve trionfare è il rispetto per il ruolo del Premio, che è di far scoprire la grande letteratura, di portare i libri all’attenzione della gente – questa è la mia speranza. Per il resto, l’unica mia vera aspettativa è un grande abbraccio nel momento in cui verrà dichiarato il vincitore. Se sarò io a riceverlo dagli altri autori, o se invece tutti insieme ci troveremo ad abbracciare  un altro vincitore, sarò ugualmente felice. Ho letto gli altri libri e sono veramente molto belli: tutti quanti meriterebbero di essere premiati.

Veniamo al libro, com’è venuta l’idea della storia?
Questo libro nasce da una serie di osservazioni della realtà, spesso drammatiche – dalle notizie dei suicidi legati alla crisi, dalle notizie sulla perdita del potenziale industriale. Ma nasce anche da un insieme di ricordi riferiti agli anni Cinquanta, ricordi di fabbrica, vissuti in prima persona, che mi sembrava avessero una particolare attinenza con il presente. Il romanzo nasce dall’idea della non linearità del tempo, dall’idea che il tempo si ritorce continuamente su se stesso come legno di vite: situazioni del passato ritornano continuamente nell’oggi.

Nel libro si rispecchiano due rovinose cadute: quella di una città, di un intero Paese, l’Italia, e della sua industria e quella personale di Guido Marchisio. È la metafora di un legame inestricabile tra il destino di una nazione e il singolo individuo?

Io credo di poter andare oltre la nazione. Penso che sia l’intero mondo occidentale a star cadendo, seppur con velocità diverse, nei tranelli che lui stesso ha costruito, in un abisso che lui stesso ha scavato. Sicuramente le esistenze di ciascuno di noi, nel momento in cui perdiamo i nostri riferimenti, possono seguire questo stesso destino. E quando parlo di caduta non parlo tanto di una crisi economica, quanto di una crisi dei diritti. Quello che abbiamo veramente perduto è il diritto al lavoro, il diritto a una libertà di gestione del nostro futuro. È inevitabile che questa situazione porti anche alla rovina personale. Quella di Marchisio è una caduta più accentuata, perché lui è un sostenitore accesissimo della perdita dei diritti – è un tagliatore di teste, un cinico, che rimarrà vittima delle sue stesse teorie.  

Il titolo sembra alludere a un atto di accusa. Quali sono “Le colpe dei padri” che ci hanno condotto qui?
Nel libro ci sono diversi tipi di “colpe dei padri”: quelle private e quelle generazionali. Come società, noi scontiamo le colpe di chi avrebbe potuto fare altre scelte negli anni Settanta e non le ha fatte, di chi ha voluto ridurre le esperienze degli anni Settanta alla semplice formula “anni di piombo”, recuperando di quella fase storica solo l’aspetto più violento – dimenticando che gli anni Settanta sono stati anche gli anni dei diritti – e poi le colpe dei padri della mia generazione, che consistono nel non aver saputo vedere in tempo quale rovinoso futuro stavamo e stiamo preparando per i nostri figli.

Una domanda personale, com’è nata in lei la passione per i libri? A quali bisogni profondi rispondono per lei la lettura e la scrittura?

Lettura e scrittura credo che in me abbiano sempre risposto allo stesso bisogno: quello di andare oltre all’esperienza che il dato anagrafico e storico ci consegnano. Leggere un libro, e scriverlo è un po’ lo stesso, significa prendere in prestito la vita di qualcun altro, significa creare delle vite e provare a sperimentarle. Io ho scoperto il gusto della lettura abbastanza tardi, verso i 10-11 anni, e poi ho iniziato a scrivere a 16, anche un po’ per sfuggire al destino che io stesso mi stavo preparando – l’istituto tecnico industriale, gli interminabili pomeriggi nell’officina della scuola a lavorare con la lima o con il torchio. La scrittura era un modo per salvarsi.

29 giugno 2013

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