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Paolo Di Stefano, ”La critica letteraria ha perso autorità”

La critica letteraria soffre per la mancanza di una gerarchia tra le troppe figure che sulle testate si occupano di libri, oltre che per l'eccessiva quantità di titoli pubblicati. Ad analizzare il problema è Paolo Di Stefano, inviato speciale delle pagine culturali del Corriere della Sera, di cui è stato anche responsabile...

Il giornalista esamina i problemi di cui soffre oggi la critica letteraria e illustra quali qualità dovrebbe avere una buona recensione

 

MILANO – La critica letteraria soffre per la mancanza di una gerarchia tra le troppe figure che sulle testate si occupano di libri, oltre che per l’eccessiva quantità di titoli pubblicati. Ad analizzare il problema è Paolo Di Stefano, inviato speciale delle pagine culturali del Corriere della Sera, di cui è stato anche responsabile. Il giornalista commenta con noi un suo articolo pubblicato il 4 novembre su Corriere.it e illustra quali caratteristiche dovrebbe avere un buon lavoro di critica letteraria.

 

Partiamo dall’articolo pubblicato il 4 novembre su Corriere.it, “I 10 libri impossibili da finire”: lei parla qui di dieci grandi classici in toni schietti, senza riguardi all’autorità. Perché scrivere un articolo con consigli di lettura “in negativo”?

Intendiamoci, non c’è niente di eroico o di particolarmente coraggioso nel segnalare, come ho fatto io, dieci titoli di libri difficili da portare a termine. Si tratta di una lista molto soggettiva: alcuni mi hanno subito scritto che è assurdo ritenere difficile “La montagna incantata”. Non era una critica in negativo, perché la difficoltà di un romanzo non è certo sinonimo di “bruttezza” o di cattiva letteratura, altrimenti dovremmo cancellare una miriade di capolavori, a cominciare dagli autori che ho citato per proseguire con Proust, Céline, Gadda, David Foster Wallace e tanti altri.
L’idea era venuta alla redazione online del Corriere, che l’aveva vista sul quotidiano inglese The Guardian, come viene spiegato nel cappello redazionale.
 

Pensa che la critica letteraria indulga a un’eccessiva deferenza nei confronti di nomi e titoli entrati nella tradizione come capisaldi della letteratura?

Se lei parla dei classici, non vedo nessuna deferenza. La reinterpretazione e la rilettura dei grandi autori mi pare un esercizio utile e praticato con frutto sui giornali dagli scrittori, dai saggisti e dagli storici della letteratura più che dai critici letterari. Mi pare uno degli aspetti più interessanti del nostro giornalismo culturale in senso lato. 

 

Secondo lei la critica letteraria è abbastanza imparziale? I libri recensiti, quelli che fanno notizia, sono davvero i migliori oppure si impongono all’attenzione dei media in base a criteri e necessità estrinseci alla loro qualità letteraria – la notorietà dell’autore, gli interessi delle case editrici e via dicendo?

La critica giornalistica, che un tempo si definiva militante, ha perso pubblico, autorità e credibilità. I giornali confondono critici, scrittori-lettori e giornalisti. In questo miscuglio indistinto, tutti recensiscono tutto e non c’è più gerarchia: ogni giorno sui giornali nazionali saltano fuori nomi di nuovi recensori che poi spariscono per far posto ad altri. La figura del critico è schiacciata da questa confusione (secondo me voluta) ma anche dal numero spaventoso di libri che escono. I grandi giornali, a ben guardare, fanno volentieri a meno di quella personalità autorevole che un tempo si chiamava critico. Se le chiedessi chi è il critico di narrativa italiana della Repubblica o del Corriere, lei mi saprebbe rispondere? Tutti e nessuno, anche se ci sono alcune figure più riconoscibili, che però magari non si occupano dei libri importanti ma di pubblicazioni marginali. Questa girandola permette di affidare ad arte al commentatore più benevolo (a volte su esplicita richiesta dell’editore) dei libri che altrimenti un critico serio, magari non orientabile dal giornale, stroncherebbe. Nessuno si prende più la responsabilità di andare in cattedra per dire la sua e il lettore, giustamente, preferisce affidarsi al passaparola della Rete, che è sempre più invadente. Ecco, direi che forse il criterio che sta invadendo le pagine culturali è quello orizzontale del Web. Una volta i quotidiani erano schiavi della televisione, oggi dell’online. Una prostrazione culturale ridicola, come se il giornale in sé non avesse una propria specificità critica e tradizione di linguaggi da far valere.
 
Quali sono i caratteri di un buon lavoro di critica ? Quali le insidie in cui rischia di inciampare chi si occupa di critica libraria?

I due caratteri fondamentali della recensione sono la descrizione del libro e il giudizio su di esso. Diciamo un aspetto analitico e un versante valutativo: in breve il critico bravo sa dire al lettore con una certa approssimazione che tipo di libro ha di fronte (contenuti, trama a sommi capi, genere, stile, carattere dell’autore e suoi precedenti). Ma sa anche spiegare se e perché vale la pena leggerlo o no. In genere questi due piani vengono confusi con descrizioni allusive e ispirate e con pareri molto sfumati e vaghi. Ne vengono fuori articoli né carne né pesce, che confondono programmaticamente le acque e che servono a marcare una presenza su un dato libro (l’autore ringrazierà commosso), ma nella sostanza non dicono nulla di chiaro al lettore.  

 

Se dovesse invece indicare i libri di cui è impossibile non innamorarsi – e che fanno innamorare della lettura – quali sarebbero?
Mah, le dico l’ultimo di cui mi sono innamorato perdutamente? "Papà Goriot" di un certo Honoré de Balzac. Con i libri recenti, l’amore scatta sempre meno, anche quando sono buoni libri.

 

13 novembre 2012

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