“Non c’è posto per l’amore, qui”, 10 domande all’autore Yaroslav Torfimov

6 Aprile 2025

Leggi l'intervista a Yaroslav Torfimov sul suo libro "Non c'è posto per l'amore qui" e scopri l'importanza della memoria e della storia nella nostra vita.

Non c'è posto per l'amore qui intervista a Yaroslav Torfimov

Non c’è posto per l’amore, qui” è il primo romanzo di Yaroslav Trofimov è autore di tre libri di narrativa non-fiction. Ha lavorato in tutto il mondo come corrispondente estero del “The Wall Street Journal” e dal 2018 è capo corrispondente per gli affari esteri del giornale.

Chi è Yaroslav Torfimov

Nato a Kyiv, nel 2022 è stato finalista del premio Pulitzer per il giornalismo internazionale per il suo lavoro sull’Afghanistan, e nel 2023 per quello sull’Ucraina. I suoi riconoscimenti includono un premio Overseas Press Club e la medaglia d’oro del Washington Institute per il miglior libro sul Medio Oriente. Il suo lavoro più recente di saggistica, Our Enemies Will Vanish, è stato finalista dell’Orwell Prize e vincitore del Peterson Literary Prize. “Non c’è posto per l’amore qui” è stato inserito nella classifica dei migliori libri del 2024 per la National Public Radio.

10 domande all’autore Yaroslav Trofimov

Il titolo del libro è fortemente evocativo. Crede che il nostro tempo e le nostre società abbiano davvero “meno posto” per l’amore rispetto al passato?

Il titolo è volutamente provocatorio, quasi una contraddizione. In realtà, è proprio nei contesti più estremi, come la guerra, che l’amore riesce spesso a emergere con una forza sorprendente. Durante il conflitto in Ucraina, ad esempio, tante persone si sono sposate, si sono unite, hanno scelto di amare nonostante tutto. È come se, di fronte alla brutalità della distruzione, l’amore diventasse un gesto di resistenza, di affermazione della vita. Quindi sì, ‘Non c’è posto per l’amore, qui’ suona come una negazione, ma nel profondo vuole raccontare esattamente il contrario: che l’amore trova spazio anche, e forse soprattutto, dove sembra non essercene.

 

Il romanzo ha una forte impronta storica e politica. Qual è stata la scintilla che l’ha portata a raccontare questa storia?

Ho pensato di raccontare la storia dell’Ucraina attraverso la storia di mia nonna, Debora. Come la protagonista, Debora, nel libro, perché la storia dell’Ucraina è sconosciuta all’Occidente.

Ho letto tantissimo delle testimonianze di quei giorni, perché volevo raccontare attraverso la dramma di questa ragazza, di questa donna, la storia vera del paese che è completamente sconosciuta. Perché l’Ucraina per gli italiani e anche per tanti altri europei è terra incognita, non si sa niente.È questo è ciò che mi ha spinto, perché ho cominciato a scrivere questo romanzo nel 2014. Io vivevo a quei tempi in Afghanistan, a Kabul, facevo il capo redattore del The Wall street Journal. E quando la prima guerra in Ucraina cominciò, ero stupefatto di come tutte le spiegazioni di questa invasione russa iniziale, di tutta la storia d’Ucraina, venivano trasmesse attraverso gli occhi di Mosca.

Perché tutto quello che si sapeva dell’Ucraina veniva attraverso la visione russa. E gli ucraini, nella loro voce, nell’arco intero della storia, anche perché tantissimi di questi ucraini erano sterminati fisicamente anche negli anni trenta, durante il periodo in cui ho scritto questo romanzo.

Io parlo lì, c’è un capitolo che in questo palazzo slogo a Kharkiv, dove devono incontrare scrittori e poeti ucraini, Mi sono riferito soltanto al loro nome senza cognome, però sono tutti personaggi veri. Le cose che dicono nel romanzo sono le cose che scrivevano nei loro libri. E furono tutti sterminati qualche anno dopo. E, infatti, sono completamente sconosciuti fuori dall’Ucraina.

 

Nei suoi reportage giornalistici ha raccontato realtà spesso crude e complesse. Quanto di questa esperienza ha influenzato la narrazione del romanzo?

Quando uno scrive della guerra è utile aver visto la guerra vera, la complessità delle emozioni umane, come la gente si comporta, perché la guerra è come un’immagine senza mai averla vista, perciò questo è stato molto utile.

La cosa che fu allucinante per me, perché ho finito di scrivere questo romanzo alla fine del 2021, e poi due mesi dopo mi trovavo a Kiev a vedere con i miei occhi il bombardamento di Kiev che avevo descritto nel romanzo, immaginandolo. Infatti era abbastanza simile a quello che avevo immaginato. Io lavoravo con un collega che è un regista ucraino, e loro hanno fatto un film che immaginava anche la guerra, la grande guerra, hanno finito questo film alla fine dell’anno e hanno pagato un sacco di soldi a una società di grafica e di computer in Sudafrica per rappresentare la guerra con un montaggio in CGI, e poi due mesi dopo la guerra è scoppiata davvero.

 

Il libro parla di guerra, oppressione, e sopravvivenza. Crede che l’amore possa essere un atto di resistenza in tempi di violenza?

Assolutamente, sì.

Ci sono due cose. Prima di tutto la vita privata e la vita nella società possono essere distaccate, perché anche nei peggiori tempi di guerre e catastrofi due individui possono trovare l’amore tra di loro anche per rafforzarsi. Anche oggi sulle linee del fronte ucraino, ci sono delle persone che si sposano, che si innamorano, che pianificano la vita, che magari non ci sarà perché saranno ammazzati domani, però ognuno non pensa a questo.

Il problema della società totalitaria che schiaccia l’individualità, schiaccia la libertà anche interna, e  riduce un essere umano a un animale che deve pensare solo a come mangiare, come sopravvivere. E allora un animale non è capace di un amore come una persona umana, e uno arriva a momenti terribili, che è difficile immaginare per noi oggi in Occidente, che questa umanità va schiacciata fuori dalla mente. C’è questo personaggio in un libro che ha finito per mangiare il  figlio. Situazioni difficile che non si possono giudicare se non le si vive veramente, perché nessuno sa come sarà quando si troverà davanti alla guerra.

Io l’ho vista in Ucraina, con la guerra che cominciò tre anni fa, c’è chi si pensava di essere coraggioso al momento di essere in pericolo, rivelandosi un codardo, e un altro che non ha mai pensato di essere coraggioso, che improvvisamente trova la forza di andare avanti.

Perciò fino a che uno è sotto questo tipo di pressione, uno non sa come va a comportarsi. Infatti per questo rimango sempre molto al di là delle parti, perché non avendolo fortunatamente vissuto, non esprimo, però purtroppo sento che molti esprimono giudizi quando non dovrebbero.

 

I personaggi del romanzo si muovono in un contesto di estrema instabilità. Quanto è stato difficile costruire le loro  psicologie e mantenere l’equilibrio tra realismo e finzione?

Sì, io ho un po’ di esperienza di estrema instabilità, io sono nato nell’Unione Sovietica, mi ricordo ancora la mia infanzia, come funzionava quel sistema, perciò ho anche messo un po’ delle mie esperienze personali emotive, perché anche se il sistema non era così brutale negli anni Ottanta, era comunque lo stesso sistema, perciò il modo di pensare era lo stesso.

Però alla fine questa fu la loro vita, se uno guarda i numeri in Ucraina, scoprirà che l’ Ucraina aveva 28 milioni di persone, alla fine negli anni Venti, 4 milioni sono morti durante la carestia, un altro milione circa nelle rappresaglie, e poi, 10 milioni morti nella guerra, tanti, perciò la probabilità di sopravvivere non era molto elevata e quelli che sono sopravvissuti hanno dovuto fare di tutto, anche fare delle cose brutte, perché non era una scelta. E questa è la tragedia dell’Ucraina, e noi che siamo nati in Ucraina portiamo dentro questa memoria storica, che spiega perché oggi si resiste.

 

Il romanzo ha un forte impatto emotivo. Ha vissuto momenti in cui la scrittura è diventata insostenibile a livello emotivo?

No, ho scritto altri libri su situazioni molto brutte, questo, però, è  il mio primo romanzo, prima di questo ho scritto altri tre libri sulle guerre: Medio Oriente e Ucraina. Quando si passa la  vita a scrivere delle miserie degli altri, sopratutto vista la situazione oggi in Ucraina, ho imparato a mettere come uno schermo emotivo.  Poi, non so, magari un giorno non sarà così.

 

C’è un messaggio specifico che spera arrivi ai lettori attraverso questa storia? O preferisce lasciare spazio a più interpretazioni?

No, il messaggio storico, il messaggio specifico è quello che c’è in tutti i miei libri. Il messaggio è che dobbiamo guardare all’individuo, cosa che il mondo smette di fare quando pensa alla guerra. Il mondo non è come un gioco di scacchi, non bisogna pensare alla geopolitica e basta, ma alle persone. Pensare all’impatto che la guerra possa avere sugli esseri umani che sono uguali a voi lettori. Tutti hanno le stesse speranze, le stesse idee della vita, le stesse aspirazioni di essere felici, contenti, crescere ogni  giorno un po’ di più, ma che purtroppo non lo possono fare in tante circostanze e l’idea è questa, l’idea del libro è di umanizzare la tragedia dell’Ucraina e  far capire  al lettore dall’interno quale possa essere il trauma della guerra.

 

Come si bilancia, secondo lei, il dovere di raccontare la verità con la necessità di proteggere il lettore da una realtà a volte insopportabile?

“No, io penso che i lettori  vada protetto, dopo tutto sono adulti, no? Mi sono risparmiato abbastanza, non potevo scrivere delle pagine sugli orrori, essere troppo grafico altrimenti sarebbe stato attore gratuito. Ho minimizzato l’illustrazione della tragedia, però ho provato comunque a trasmettere la verità.

Non ho bisogno di 10 pagine per fare capire cosa succederà.

 

Se potesse far leggere questo libro a una persona specifica – storica, politica o personale – chi sceglierebbe e perché?

Non potrei indicare una persona in particolare, ma questo libro è rivolto ai lettori, anche ai politici, che parlano agli ucraini dicendo: “Ma perché non vi arrendete? La pace è una cosa bellissima. I russi, in fondo, cosa vi fanno?” Ecco, il punto è che noi sappiamo cosa i russi hanno fatto nel passato. Vorrei che la gente capisse davvero le ragioni della resistenza ucraina di oggi, perché è motivata soprattutto dal desiderio di non tornare a ciò che è successo ai nostri nonni e bisnonni.

Sappiamo che questo è il progetto del governo di Putin, e non lo nascondono nemmeno: vogliono eliminare l’élite culturale ucraina, e come dicono loro stessi, distruggere il “virus dell’ucrainità”. Questo è il linguaggio ufficiale del Cremlino, che nega all’Ucraina il diritto di essere una nazione, con un proprio passato e un proprio futuro. Il libro cerca di raccontare proprio questa storia ucraina complessa, che troppo spesso resta sconosciuta.

Il romanzo, infatti, si sviluppa su tre livelli. C’è innanzitutto la storia della protagonista, una donna la cui vicenda è coinvolgente, con svolte drammatiche che potrebbero accadere ovunque. Poi c’è un secondo livello, che accompagna il lettore nel percorso storico dell’Ucraina, pensato per chi conosce poco o nulla della nostra storia. Infine, c’è un terzo livello: molti personaggi sono citati solo per nome, e chi ha familiarità con la cultura ucraina capisce immediatamente a chi si riferiscono e quale sia il loro ruolo simbolico, quasi “in codice”.

Qualche mese fa, durante una presentazione in Scozia, una ragazza di origine ucraina, che ha studiato i rapporti tra Italia e Ucraina e che faceva da moderatrice, mi ha detto: “Ma io so chi è questo personaggio, e anche questo… Adesso che ho visto tutti questi riferimenti messi insieme, capisco quanto sia profondo questo linguaggio, pensato per gli italiani che conoscono davvero bene il contesto.

 

Dopo aver scritto questo libro, il suo modo di vedere l’amore, la guerra e l’umanità è cambiato?

No, no, perché sono vent’anni che scrivo di guerre, e penso che la cosa più importante, sempre, sia mantenere la propria umanità, la propria dignità, anche nelle circostanze più difficili — perfino quando sembra impossibile. Per questo non dovremmo giudicare, ma è fondamentale almeno provare a farlo. Alla fine, quando si combatte in guerra, si dovrebbe farlo per amore di qualcosa, non per odio.

Sì, esatto, che sia per difendersi, per la libertà… per le cose più essenziali: la famiglia, la casa, i figli. Per la sopravvivenza, anche solo in senso concreto.

Ma proprio la sopravvivenza. Perché quando una persona va a combattere, lo fa sapendo che potrebbe morire. E quindi è pronta a dare la vita per qualcosa. Per amore di qualcosa. Sì, esatto. Questo riguarda chi combatte. Poi ci sono i civili  e tra loro c’è chi si sacrifica, chi cerca solo di sopravvivere.

Sì, e purtroppo sono proprio i civili a pagare il prezzo più alto in ogni guerra.

Purtroppo è così. Ecco, queste erano le dieci domande.

 

In conclusione:

Penso, e torno su questo argomento, che sì, è una storia d’amore, ma anche una storia psicologica, il percorso di crescita di una donna. Una donna che arriva con tante illusioni, tante speranze, che immagina un futuro radioso… e poi viene schiacciata dalla realtà della storia. Cambia, impara. Impara a gestire quella realtà e, alla fine, fa una scelta. A un certo punto dice: “Ho capito che i buoni sono quelli che muoiono per primi.” E decide che non vuole più essere la buona.

Anche per amore, per sé stessa, e per i suoi figli. Ecco, questo secondo me è un percorso importante, perché va oltre l’Ucraina. L’Ucraina non è l’unico posto al mondo dove c’è il pericolo di un regime totalitario. Lo è stata nel passato, oggi è in guerra, ma ci sono tante altre parti del mondo in cui la gente è costretta a combattere contro la forza della storia. E forse, in futuro, ce ne saranno ancora di più. È questo che rende universale questa lotta: non è solo un romanzo sull’Ucraina.

 

Non c’è posto per l’amore qui

Kharkiv, 1930. Debora ha diciassette anni, una mente brillante e un cuore pieno di letteratura. È ebrea, ma nella nuova Ucraina sovietica la religione non conta più. Il futuro sembra finalmente affrancato da passato e tradizione: i grattacieli salgono, le università aprono le porte alle ragazze, si costruisce la modernità socialista.

Debora sogna un mondo nuovo e si lancia a capofitto nella sua creazione. Trova lavoro, incontra Samuel, un ufficiale di belle speranze, si iscrive all’università. Tutto pare possibile, ma la realtà, lentamente, inesorabilmente, si sfalda sotto i suoi piedi.

L’Ucraina è stretta nella morsa della fame e della repressione. La carestia indotta da Stalin, l’Holodomor, devasta le campagne. L’aria di libertà si spegne nella paura, la burocrazia ideologica annienta il dissenso, e l’amore, che Debora coltiva come un fiore segreto, diventa pericoloso quanto un’opinione sbagliata.

Con lo scoppio della Seconda guerra mondiale, l’orrore si completa. L’Ucraina è invasa, bombardata, svuotata. Debora, per sopravvivere, dovrà dissimulare, mentire, tradire. Eppure, in mezzo alla devastazione, la sua voce resiste.

Debora: una protagonista indimenticabile

Debora Rosenbaum è uno dei personaggi femminili più forti e struggenti della letteratura contemporanea. Non è un’eroina idealizzata, non è una martire. È una giovane donna lucida e passionale, che lotta per vivere in un mondo che cerca costantemente di toglierle spazio, parola, corpo.

Debora è lo sguardo dell’intelligenza che non si spegne. La sua crescita attraversa tutti i momenti dell’abbandono: della famiglia, della lingua madre, della giovinezza, della fede, dell’innocenza. Eppure, anche nei momenti più crudi, non c’è mai pietismo nella sua figura. Solo forza e necessità.

La sua voce, intensa, letteraria ma mai artificiosa, accompagna il lettore nella resistenza quotidiana di chi deve rinunciare a tutto tranne che alla propria dignità.

Trofimov non si limita a raccontare la Storia: la fa esplodere nella vita quotidiana. Le tragedie collettive non sono spiegate dall’alto, ma filtrate dal vissuto personale. La carestia, ad esempio, non è una cronaca, ma una fame che ti attorciglia lo stomaco insieme a Debora.

Il romanzo restituisce perfettamente la tensione che attraversa l’Ucraina negli anni ’30 e ’40: l’ambivalenza del progetto sovietico, l’illusione della modernizzazione, l’improvviso cambio di rotta verso il terrore. Non mancano momenti durissimi, come le deportazioni, le purghe, gli interrogatori, ma Trofimov non si compiace mai della violenza: ogni orrore è raccontato con umanità e misura.

La scrittura è limpida, solida, senza sbavature. Trofimov alterna con abilità la narrazione in terza persona al flusso di pensieri di Debora, creando un equilibrio tra emozione e precisione storica.

La struttura narrativa accompagna il lettore in un crescendo emotivo, senza perdersi mai. L’arco narrativo di Debora è costruito con attenzione, e anche i personaggi secondari come Samuel, le amiche, i funzionari, sono vivi, complessi, mai stereotipati.

Il titolo Non c’è posto per l’amore, qui è tanto una constatazione quanto un grido di protesta. L’amore, nel romanzo, non è solo romantico. È amore per la vita, per la cultura, per la possibilità di essere liberi. Ed è proprio questa forma d’amore che il totalitarismo vuole cancellare.

Debora si ritrova a lottare per proteggere l’amore: quello per Samuel, per la scrittura, per i legami familiari. Ma in un mondo dove la verità è una colpa, anche amare è un rischio. Eppure, l’amore resiste. Stravolto, nascosto, clandestino. Ma non morto.

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