Così come esistono le avanguardie, esistono anche “due onde” interconnesse tra loro che scivolano tra un’arte e l’altra da fine anni ’50 e inizio anni ’60.
La prima è la “Nouvelle Vague”, la “Nuova onda” francese che convince un gruppo di registi a prendere la macchina da presa e uscire per strada: non soltanto un’etichetta manuale, ma un modo per ridefinire la luce, il suono e così via.
Da questo movimento prende ispirazione la “New Wave”, che si pone subito come un gruppo di scrittori pronti a uscire dall’orbita rassicurante delle colonie spaziali tipiche dello shi-fi per infilarsi nei corridoi più stretti della coscienza.
La scelta del nome non è casuale
La New Wave letteraria prende in prestito, con malizia e ammirazione, il marchio che in Francia aveva appena svecchiato il cinema. Ciò che le lega non è un elenco di influenze dirette, ma una etica della forma: la convinzione che la forma non “vesta” il contenuto — sia il contenuto.
Perché parlare di “due onde” insieme
Leggere la New Wave senza almeno ricordare quella prima “nuova onda” significa perdere il senso del suo gesto inaugurale; raccontare la Nouvelle Vague ignorando come quel gesto abbia rimbalzato in letteratura significa smarrire la potenza contagiosa della libertà quando diventa stile condiviso.
Per questo ha senso tenere le due storie nella stessa pagina: una parla di luce e montaggio, l’altra di sintassi e immaginazione; entrambe parlano di sguardo.
Nouvelle Vague: il cinema “sporco”
Dal set alla strada: la realtà come materia viva
A Parigi, sul finire degli anni Cinquanta, giovani critici-cinefili che scrivono sui “Cahiers du Cinéma” — François Truffaut, Jean-Luc Godard, Claude Chabrol, Éric Rohmer, Jacques Rivette — smettono di essere soltanto spettatori agguerriti e diventano registi. Prendono macchine leggere, rifiutano gli studi, preferiscono la luce naturale, il suono “sporco”, l’imprevisto della città.
Sull’altra riva della Senna, quella che più tardi chiameremo “Rive Gauche”, Agnès Varda, Alain Resnais e Chris Marker avvicinano il cinema alla fotografia, alla memoria, al documento poetico.
Il risultato è una frattura garbata ma irreversibile: il cinema non è più un tableau perfetto, bensì un organismo che respira.
Il gesto tecnico — camera a mano, montaggio nervoso, salti di raccordo, sguardi in macchina — è inseparabile dal gesto poetico. Quando Truffaut segue Antoine Doinel in fuga ne “I 400 colpi”, quel finale sulla spiaggia non è soltanto un’immagine, è una domanda sospesa sul futuro.
Quando Godard spezza la continuità in “Fino all’ultimo respiro”, non sta “sbagliando” montaggio: sta dicendo che il presente è un mosaico che non torna mai del tutto. Varda, in “Cléo dalle 5 alle 7”, ferma il mondo in due ore reali per ricordarci che il tempo del corpo e quello del pensiero non coincidono.
Forma come presa di posizione: l’autore entra nel quadro
Questi film non predicano ideologie; pensano in forma. La politica è nella messa in scena: dove poggi la macchina da presa, quanto tempo concedi a un volto, se accetti il silenzio o senti il bisogno di riempirlo.
L’autore diventa una figura visibile, non come star, ma come responsabilità. È un cambio di paradigma che si sente anche fuori dalle sale: la città diventa un testo; l’idea di giovinezza si disfa del mito innocente e mostra nervature d’ironia, stanchezza, desiderio.
Il pubblico, abituato a racconti lineari e dialoghi impeccabili, scopre il fascino della frase cinematografica spezzata: l’ellissi non è distrazione, è fiducia nell’intelligenza di chi guarda.
New Wave: quando l’altrove diventa interiore
Un’età dell’oro da scardinare: cambiare l’orbita del genere
Se la fantascienza dell’età d’oro aveva promesso slanci eroici, linee pulite, ottimismo tecnologico, tra metà e fine anni Sessanta un manipolo di scrittori decide di cambiare l’orbita del genere.
In Inghilterra, “New Worlds” — rivista rinnovata sotto la direzione di un giovane Michael Moorcock — diventa un laboratorio dove la fantascienza sperimenta: la trama si frammenta, lo stile si addensa, l’eroe si fa ambiguo. Il nome che la critica userà è un omaggio e un programma: New Wave. Non più l’astronave come vettore d’avventura, ma la mente come territorio da esplorare.
Ballard e l’“inner space”: distopie senza astronavi
L’emblema di questa svolta è J. G. Ballard. Nei suoi romanzi più celebri, da “Crash” a “Il condominio” passando per “L’isola di cemento”, l’apocalisse non cade dal cielo: si annida nelle architetture della modernità — autostrade, torri, media — e nel desiderio che le abita.
La fantascienza smette di fuggire “fuori” e comincia a scavare “dentro”, in un inner space che è fatto di simboli, feticci, ansie. Il futuro diventa un modo di parlare del presente: la tecnologia non come salvezza, ma come specchio della nostra fame di controllo.
Accanto a Ballard, Brian Aldiss esplora ecologie immaginarie e psicologie mutate; Samuel R. Delany fonde linguistica, classe, sessualità in un racconto mitico che rinnova la space opera; Ursula K. Le Guin costruisce pianeti come esperimenti antropologici, dove il genere, l’identità e il potere si negoziano a ogni pagina.
Negli Stati Uniti, antologie come “Dangerous Visions” aprono la porta a temi tabù: corpi non conformi, desideri non normati, società che non si lasciano raccontare in righe dritte.
La lingua come laboratorio: dalla trama alla sintassi
Se la Nouvelle Vague aveva reso visibile la macchina da presa, la New Wave rende udibile la macchina della lingua; le frasi si allungano o si spezzano, i capitoli si comportano come fotogrammi, la narrazione assume il ritmo di una città o di un respiro. L’effetto non è uno sfoggio di bravura, ma una scelta etica: raccontare diversamente significa pensare diversamente.
Nel momento in cui la fantascienza smette di essere solo “idea brillante + soluzione”, acquista un registro capace di chiedere al lettore complicità, attenzione, responsabilità emotiva.
Eredità contemporanea: speculative d’autore e ibridazioni
Senza quella New Wave non avremmo molte delle prose ibride che oggi chiamiamo “speculative fiction”: dalla distopia ecologica alla fantascienza intimista, dai romanzi che mescolano teoria e narrazione alle saghe che reinventano il fantastico come strumento politico. Ogni volta che incontriamo un futuro narrato non come atlante di tecnologie, ma come metafora di un’identità che muta, sentiamo ancora lo sciabordio di quell’onda.
Un filo teso tra le onde: analogie più che genealogie
Non la stessa storia, ma lo stesso coraggio
Nouvelle Vague e New Wave non sono madre e figlia; sono sorelle per coraggio. Nascono entrambe da una generazione impaziente, insofferente ai recinti: rifiutano l’accademia, abbracciano l’imperfezione come verità, cercano nella forma una dichiarazione politica.
Se i registi francesi mostrano la città come organismo vivo, gli scrittori New Wave mostrano il soggetto come città interiore: strade, snodi, tangenziali affettive. Da una parte il montaggio salta; dall’altra la sintassi scarta. È lo stesso gesto: ridare al presente la sua incertezza.
Lo spettatore e il lettore come co-autori
Le due rivoluzioni hanno in comune anche un’idea di pubblico: non spettatori passivi, ma co-autori. Il salto di raccordo in un film, come l’ellissi temeraria in un romanzo, chiede fiducia: ti fidi che il senso non stia tutto in quello che viene detto? Ti fidi che il non detto pesi quanto il detto? Questa etica della ricezione — il rispetto per l’intelligenza di chi guarda e legge — è forse la vittoria più grande delle due ondate: avere educato generazioni a sostenere l’ambiguità senza sentirsi tradite.
La politica senza sermone
Infine, c’è un modo comune di fare politica senza trasformare l’opera in pamphlet. Il politico sta nel dove, nel come, nel quando: nell’inquadratura che lascia spazio a un volto “insignificante”, nel dialogo che si interrompe, nella scelta di una voce narrante inaffidabile, in un finale che non aggiusta tutto.
È una politica del contesto più che del contenuto, della responsabilità formale più che del messaggio urlato. Così, un film può essere sovversivo senza slogan; un romanzo può essere rivoluzionario senza slogan.
Come si legge e si guarda oggi: piccoli percorsi incrociati
Città e corpi
Guardare “Cléo dalle 5 alle 7” e, poi, leggere “Crash” significa osservare due città che diventano corpo: Parigi come orologio affettivo, le autostrade come sistema nervoso. Varda chiede: “Che cosa fa il tempo al nostro sguardo?” Ballard rilancia: “Che cosa fa la tecnologia al nostro desiderio?” In entrambi i casi, l’urbanità non è scenario ma attore: entra in campo, modifica il ritmo, detta il passo alla frase.
Memoria e montaggio
Vedere “Hiroshima mon amour” e passare a “Nova” di Delany consente di intuire come il montaggio possa diventare pensiero: Resnais alterna memoria e presente creando una partitura dell’oblio; Delany intreccia voci e miti costruendo una space opera che non procede per linearità, ma per ritorni, variazioni, risonanze. L’effetto è una riflessione sulla forma del ricordo più che sul suo contenuto.
Iniziazioni irregolari
Riguardare “I 400 colpi” e leggere “La mano sinistra del buio” mostra come i riti di passaggio non siano mai neutri. Doinel impara che crescere è imparare a stare nella domanda; gli esploratori di Le Guin imparano che conoscere l’altro significa decostruire la propria grammatica. In entrambi i casi, l’iniziazione non porta un passaporto, ma una precarietà nuova.
Un lessico minimo per orientarsi senza perdersi
Jump cut e frase spezzata
Nel cinema della Nouvelle Vague i salti di montaggio non correggono gli “errori”: li abbracciano. È come se la frase filmica dicesse: “Non tutto si può raccordare”. In letteratura, la New Wave compie un gesto speculare: spezza la frase, la allunga, la rende porosa a registri diversi. Il risultato, da entrambe le parti, è un tempo che respira: vicino ai corpi, vicino alle esitazioni.
Autore visibile
La fine dell’illusione invisibile dell’autore non è narcisismo; è onestà. Ti sto mostrando che sto scegliendo: questa inquadratura, questa virgola, questo taglio. La responsabilità non si nasconde. È un patto con la realtà: non fingo neutralità, mi prendo la colpa e il merito della forma.
Realismo come rischio
Né la Nouvelle Vague né la New Wave confondono realismo con “fedeltà fotografica”. Realista è ciò che rischia: un volto illuminato male ma vero; una frase sbilenca ma viva; una trama che non chiude ma continua a bussarti dentro. Realismo è esporsi all’imperfezione del mondo, non simularne il controllo.
Per continuare l’onda: visioni e letture
Se volessimo cominciare da un piccolo itinerario, potremmo partire da “I 400 colpi” e da “Fino all’ultimo respiro”, due modi diversi di annunciare che il cinema ha cambiato pelle: uno con la tenerezza ferita del romanzo di formazione, l’altro con l’ironia intellettuale del noir sabotato.
A quel punto, “Cléo dalle 5 alle 7” ci insegnerebbe a contare il tempo non con l’orologio, ma con il battito di una paura. Sul fronte letterario, “Crash” ci obbligherebbe a guardare la modernità senza metafore di comodo; “Nova” ci mostrerebbe che l’epica spaziale può suonare come un’orchestra di lingue e classi; “La mano sinistra del buio” ci ricorderebbe che nessun viaggio vale, se non mette in crisi la grammatica che usiamo per dire “io” e “tu”. In questo dialogo incrociato, film e romanzi parlano lo stesso linguaggio: quello di chi non separa mai la forma dalla visione.