Dopo “Turbolenza”, “Tutto quello che è un uomo” e “Primavera”, David Szalay torna con “Nella carne”, spostando il focus sul suo protagonista, István, e su una domanda tanto semplice quanto potente: che cosa significa essere “un corpo nel mondo”, attraverso i decenni, le migrazioni, gli shock storici e privati?
“Nella carne” ora in Italia
Adelphi porta in Italia “Flesh” — attualmente in shortlist per il Booker Prize 2025 — con il titolo “Nella carne”: esce oggi 7 ottobre in libreria e su Amazon.
La candidatura alla shortlist 2025
David Szalay si conferma tra nella rosa degli scrittori contemporanei più acuti, tanto che “Nella carne” è stato segnalato tra i finalisti al Booker Prize 2025, a pochi anni dal successo internazionale di “Tutto quello che è un uomo”.
Una candidatura che non sorprende: la giuria ha lodato la “profondità emotiva e il coraggio formale” dell’autore, capace di scandagliare la condizione umana con la precisione di un entomologo e la compassione di un poeta.
La nomination al Booker non è soltanto un riconoscimento personale, ma un segnale della centralità di Szalay nel dibattito letterario europeo e anglosassone. Mentre molti autori si rifugiano nella sperimentazione o nel nichilismo, lui sceglie la strada più difficile: restare nella realtà, raccontarla con un linguaggio misurato e tagliente, restituendo l’eroismo sommesso della sopravvivenza quotidiana.
Se “Tutto quello che è un uomo” aveva indagato la frammentazione maschile attraverso una coralità di destini, “Nella carne” concentra quella stessa tensione in un solo corpo, una sola biografia, fino a renderla universale.
È questo equilibrio tra intimità e respiro epico, tra l’individuo e la storia, ad aver convinto la critica internazionale — dal Guardian al Financial Times — che ha definito il romanzo “una delle opere più umane e disarmanti dell’anno”.
Di che cosa parla “Nella carne”?
Il libro segue István, un uomo che attraversa il tempo e il continente con il corpo come testimone. La sua storia inizia nell’Ungheria del Dopoguerra, dove nasce e cresce in un contesto scarsamente protetto: le pressioni politiche, le speranze, le contraddizioni di un’Europa che cerca di ricostruirsi. Fin dalle prime pagine, Szalay ci presenta un ragazzo che osserva il mondo con cautela: non idealizza, non contesta platealmente, ma raccoglie immagini — paesaggi, gesti, silenzi, ferite — che restano depositati nella memoria.
Con la giovinezza, István compie la migrazione decisiva verso Londra, inseguendo l’idea, ma anche l’illusione, che l’occidente gli darà la possibilità di realizzarsi.
La mobilità, tuttavia, si rivela un percorso pieno di attriti: la precarietà del lavoro, le relazioni fragili, la solitudine abitano ogni appartamento condiviso, ogni cappotto che deve ricomporsi ai cambi di stagione. István dovrà lavorare, adattarsi, fare compromessi, contare su sé stesso.
La vicenda scorre attraverso passaggi fondamentali: l’incontro con figure decisive (amici, amanti, colleghi), i momenti di perdita (di identità, opportunità, relazioni), e soprattutto le fasi di riconciliazione interna con un passato che lo reclama. A metà romanzo, la narrazione fa una svolta: l’Europa centrale torna nel suo sguardo, e István, ora in età matura, rivolge i passi verso gli spazi fisici e affettivi che aveva lasciato. Ritorna tra le sue radici, affronta ricordi che non aveva voluto elaborare, e scopre come il tempo abbia inciso — e consumato — il suo corpo e la sua coscienza.
Il finale non è un approdo in platò: non ci attende una conclusione risolutiva o “redentrice”. István non diventa eroe né martire. Piuttosto, giunge a una forma di quiete provvisoria, dove riconosce — con accettazione cauta — la fatica di esser rimasto nel tempo, di aver abitato la carne nonostante le assenze, le fratture, le mancate promesse.
Durante questo percorso, Szalay gioca con il non detto: eventi cruciali (guerre, catastrofi, fallimenti) spesso accadono dietro le quinte. Il romanzo lavora per allusioni, ellissi, frammenti di memoria, e il lettore è chiamato a comporre i vuoti. Questa strategia narrativa fa parte del suo progetto: la vita non si esplica in full disclosure, ma in velature, residui e immagini residue.
Come è costruito: il realismo “spoglio” di Szalay
Chi conosce Szalay ritroverà il suo realismo terso: scene rapide, dialoghi essenziali, salti temporali che ci depositano in un capitolo successivo con István più grande, in un luogo diverso, già segnato da eventi avvenuti off-screen. Un movimento che alcuni critici hanno paragonato a “un treno notturno europeo: ti svegli e sei altrove, più avanti nella vita”; al centro resta la fisicità delle scelte, l’effetto della storia sul corpo e viceversa.
La ricezione internazionale
The Guardian ha scelto Flesh come “Book of the Day”, definendolo un “ritratto brillantemente sobrio di un uomo”, capace di passare “dalla curiosità giovanile alla rassegnazione di mezza età” mentre “forze fuori dal suo controllo” lo spingono da una sponda all’altra della vita.
“A brilliantly spare portrait of a man… from youthful curiosity to midlife resignation”
“Un ritratto brillantemente essenziale… dalla curiosità della giovinezza alla rassegnazione della mezza età”.
Financial Times parla di “ritratto della mascolinità contemporanea” che segue il protagonista “dall’adolescenza all’obsolescenza” con coraggio raro.
“A portrait of modern masculinity… from adolescence to obsolescence”
“Un ritratto della mascolinità contemporanea… dall’adolescenza fino all’obsolescenza”.
Il sito del Booker Prize sottolinea la qualità “fisica” della prosa: Flesh è tra i titoli “brilliantly human” della cinquina, riconosciuto per “la scrittura scarnificata che arriva all’osso” (“brillantemente umano: una prosa che scarnifica, arriva all’osso”).
Tra i commenti d’oltreoceano, The Times lo ha definito “teso e carico”, centrato sulla “vita segreta” di un uomo che attraversa ambienti e classi sociali; il New York Times Book Review lo ha incluso fra i libri notevoli della stagione.
Le scelte narrative
In un’intervista recente, Szalay ha spiegato così l’intenzione:
“Volevo scrivere di che cosa significhi essere un corpo vivente nel mondo”
“Raccontare la vita come esperienza incarnata”.
La scelta di ridurre la psicologia all’osso e di lasciare spesso fuori scena gli eventi clou (guerre, traumi, successi) è coerente con l’idea che la biografia non si misuri solo nelle grandi svolte, ma nella tenuta: la capacità — o incapacità — di stare nel tempo che ci tocca. È in questa sobrietà che molti recensori hanno visto la parentela con Camus: non perché István sia Meursault, ma perché condivide quella opacità che costringe il lettore a riempire i vuoti.
Punti di forza
Tra i punti di forza di Nella carne spicca innanzitutto la sua unità narrativa, che segna un’evoluzione importante nel percorso di David Szalay. Dopo i mosaici corali di Tutto quello che è un uomo e Turbolenza, qui l’autore sceglie di raccontare una sola vita, quella di István, e proprio attraverso questa apparente limitazione riesce ad ampliare la prospettiva sul nostro tempo. Il romanzo assume così un respiro epico nella forma della continuità, mostrando come la storia individuale possa contenere, in filigrana, quella collettiva.
Altro elemento distintivo è la trattazione della mascolinità, che Szalay esplora senza trasformarla in un manifesto. La sua è una riflessione lontana da ogni retorica identitaria: la maschilità non è un concetto astratto, ma una condizione materiale, fatta di status, precarietà economica, desideri repressi e necessità di adattamento. In questo senso, il romanzo si iscrive nella tradizione del realismo psicologico, ma lo rinnova dall’interno, mostrando un uomo che non domina il mondo — lo subisce, lo attraversa, cerca di abitarlo con dignità.
Infine, la prosa “a sottrazione” è forse la cifra più riconoscibile dello stile di Szalay. Essenziale ma mai arida, la sua scrittura si muove per ellissi e cesure, rifiutando l’enfasi e la spiegazione didascalica. Ogni frase pesa come un colpo di scalpello: incisiva, precisa, capace di trasformare anche la descrizione più neutra in una diagnosi esistenziale. Di tanto in tanto, tra una pagina e l’altra, si aprono improvvisi lampi di lirismo che non interrompono il realismo del racconto, ma lo illuminano, rivelando la materia viva della carne e del tempo.
Stile: anti-enfasi e precisione
La scrittura di Szalay è spoglia, anti-retorica, tattile. I periodi sono brevi, l’aggettivazione minimale; la precisione è tutta ritmica e visiva. Il risultato è un romanzo che si legge in apnea: si gira pagina non per lo scoop, ma per la curvatura del tempo (come cresce un desiderio, come si consuma una lealtà, come si deposita una perdita).
La critica britannica ha parlato di anti-stile al servizio di una storia che “taglia” la materia narrativa fino a farne carne viva.
L’autore David Szalay
Nato a Londra nel 1974 da madre canadese e padre ungherese, cresciuto tra Regno Unito ed Europa centrale, David Szalay è uno degli autori più riconoscibili della narrativa anglofona degli ultimi quindici anni. “Tutto quello che è un uomo” ha ottenuto la shortlist al Booker Prize 2016; con “Nella carne” la seconda presenza nella lista breve 2025. In mezzo, “Turbolenza” — 12 capitoli interconnessi, voli e scali che compongono un affresco del nostro presente iperconnesso. Le sue interviste insistono su due cardini: solitudine del lavoro e attenzione ai dettagli concreti di denaro, lavoro, corpi.