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Nando dalla Chiesa, ”Paolo Borsellino è uno dei personaggi più grandi della storia repubblicana”

SPECIALE BORSELLINO - Paolo Borsellino era un uomo timido, ma molto coraggioso e determinato: come magistrato, fu sempre in primissima fila a combattere Cosa Nostra. Così lo ricorda Nando dalla Chiesa, scrittore, sociologo e docente di Sociologia della Criminalità Organizzata presso l'Università degli Studi di Milano, figlio del generale Carlo Alberto dalla Chiesa...
Lo scrittore, sociologo e politico italiano ci consegna il suo personale ricordo del grande magistrato morto ventun anni fa e ci parla del problema della diffusione della ’ndrangheta al Nord, affrontato nel suo libro “Buccinasco”

MILANO – Paolo Borsellino era un uomo timido, ma molto coraggioso e determinato: come magistrato, fu sempre in primissima fila a combattere Cosa Nostra. Così lo ricorda Nando dalla Chiesa, scrittore, sociologo e docente di Sociologia della Criminalità Organizzata presso l’Università degli Studi di Milano, figlio del generale Carlo Alberto dalla Chiesa. Il professore ci parla anche della situazione creatasi nel Nord Italia, dove interi pezzi del provincia milanese sono ormai nelle mani della ‘ndrangheta, problema da lui affrontato nel suo ultimo libro, “Buccinasco”, scritto con Martina Panzarasa.

Che cosa ha rappresentato, nel panorama politico ed istituzionale italiano e nella lotta alla mafia, la figura di Paolo Borsellino? Qual è il suo ricordo di questo eroe dei nostri tempi?
Lo ricordo come una persona di grande spessore morale, di grande coraggio. Per aver sollevato il problema della distrazione che stava di nuovo prendendo piede nei confronti della mafia e di quello che stava accadendo a Falcone, subì un tentativo di azione disciplinare da parte dello stesso CSM – credo che quando si ricordano queste persone sia doveroso ricordare anche la fatica che dovettero fare nei loro stessi ambienti di riferimento e all’interno di quelle stesse istituzioni che oggi li onorano.
Era timido, e questo non è in contraddizione con la sua determinazione, con la sua capacità di stare in primissima fila contro la mafia, di essere un pericolo costante per Cosa Nostra: il coraggio non è l’attitudine a fare la voce grossa, anche se noi spesso confondiamo le due cose.
Lo ricordo come un magistrato che dovette andare all’Asinara per scrivere l’ordinanza di rinvio a giudizio del Maxiprocesso, costretto a vivere come un latitante quando i mafiosi invece giravano liberi per il centro di Palermo.
La sua morte mi colpì tantissimo: fu quasi annunciata da lui in un incontro pubblico alla biblioteca di Palermo cui aveva partecipato come relatore. Era arrivato in ritardo, perché stava lavorando a cose ben più importanti, e si era dimenticato di quell’appuntamento.
È uno dei personaggi più grandi e limpidi della storia repubblicana.

Nel suo ultimo libro, “Buccinasco”, parla di un fenomeno relativamente recente, ovvero la diffusione della  mafia al nord. Perché la ’ndrangheta è riuscita ad arrivare qui indisturbata, nel silenzio generale? Di chi sono le responsabilità?

Le responsabilità sono di chi è stato zitto, di chi ha fatto finta di non vedere, di chi non ha capito o non si è voluto dotare degli strumenti per capire. Eppure la magistratura ha svolto delle indagini importanti sulla ’ndrangheta nell’hinterland milanese. Non c’è nulla di eclatante in questa ascesa, l’unica cosa eclatante è il risultato finale, il fatto che la ’ndrangheta abbia colonizzato interi pezzi della provincia milanese. Il percorso per arrivare qui però è durato una trentina d’anni, giorno dopo giorno, corruzione dopo corruzione, favore su favore in cambio di voti, grazie anche a una serie di pregiudizi etnici che hanno aiutato a rimuovere quanto stava accadendo – “Qui non siamo a Palermo”. Tutte cose che si è dato per scontato rientrassero nella normalità, a dimostrazione davvero della banalità del male. E alla fine si scopre che i clan hanno preso un pezzo di economia, che dettano legge, che non c’è un amministratore che abbia deciso di dichiarare loro guerra sul serio. Anzi, c’è una fitta attività di copertura, e anche se cambiano le maggioranze politiche loro restano intoccati. Non bisogna lamentarsi se la situazione è questa, bisogna farsi un serio esame di coscienza per capire come si sia arrivati qui.

In Italia vi sono numerose associazioni antimafia, tra cui Libera di cui lei è presidente onorario, che portano avanti il lavoro iniziato da Paolo Borsellino e Giovanni Falcone. Ritiene che questa lotta possa portare davvero ad una eliminazione di tutte le mafie?
All’eliminazione non arriveremo, ma possiamo ridurre la loro presenza, possiamo limitare la loro arroganza.
Bisogna iniziare a proiettare un film molto diverso da quello che la ’ndrangheta si è immaginato per sé nel Nord Italia, e cioè quello di una cavalcata indisturbata e trionfale, con la politica e il mondo dell’impresa che stanno a guardare facendo finta che non succeda nulla. Ormai le dimensioni del fenomeno non sono più tali da consentire di buttare la polvere sotto il tappeto, non si può più nascondere niente! E tuttavia, se la ’ndrangheta pensa che potrà andare avanti così è perché ha ben presente le complicità su cui ha potuto contare. Io sogno che la Lombardia produca un movimento antimafia capace di cambiare quel film, di cambiare rapidamente lo scenario, di dare del filo da torcere ai clan, perché non possano più infiltrarsi ovunque vogliano con la stessa facilità di una lama nel burro.

19 luglio 2013

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