I migliori libri 2025 secondo The Guardian

6 Dicembre 2025

Dopo i migliori 100 libri del New York Times, The Guardian dice la sua come tutti gli anni. Questi titoli sono alcuni di quelli che ha presentato. Scopri quali.

I migliori libri 2025 secondo The Guardian

Dopo i migliori 100 libri del New York Times di questo 2025, come ogni dicembre la parola passa al The Guardian e alla sue categorie ben divise.

Tra le tante, noi abbiamo deciso di concentrarci su quelle che amate di più e riportarvi le scelte che il quotidiano americano ha fatto tra la fiction, i memoir, i saggi politici, i thriller, e gli young adult.

La differenza tra The Guardian e New York Times

Non avrete di fronte una classifica, piuttosto una mappa, un modo per orientarsi tra le voci che hanno definito l’anno editoriale; così si muove The Guardian: proponendo titoli e dando la sua opinione…

Memoir e biografie: libri sulle vite che hanno definito il 2025

Secondo The Guardian, il 2025 è stato un anno di confessioni radicali, autoritratti scomodi e biografie che non cercano di monumentalizzare, ma di smontare l’idea stessa di “vita d’eccezione”.

Una delle linee comuni più evidenti nelle selezioni dei soggetti scelti è la volontà di raccontare ciò che sta dietro l’immagine pubblica: le fragilità, le svolte, le ferite, ma anche il coraggio di vedersi davvero.

Tra i memoir più imponenti dell’anno spicca Anthony Hopkins. “È andata bene ragazzino”, un’opera che il Guardian definisce un vero svelamento. Hopkins non offre l’agiografia dell’attore premio Oscar, ma una confessione limpida, dura, a tratti spietata: il trauma dell’infanzia gallese, la lotta contro l’alcolismo, la sensazione di essere “un estraneo in qualsiasi stanza”. È un libro che demistifica l’idea di genio e la sostituisce con qualcosa di più umano: la disciplina, la solitudine, il caso. Hopkins racconta la sua carriera come un accidente del destino, non come un trionfo annunciato.

Di segno opposto, ma ugualmente magnetico, è il memoir di Kathy Burke, “A mind of my own”, iconica attrice e regista britannica. Burke affronta il proprio percorso artistico con una voce irresistibilmente diretta e ironica, e il Guardian lo celebra come uno dei libri più sinceri dell’anno. È una storia di classe sociale, di autodeterminazione feroce, di resistenza: Burke non vuole piacere, vuole raccontare — e ci riesce, a partire dall’infanzia trascorsa con un padre violento e alcolizzato.

Tra le biografie più attese in Italia, e da poco edita per Ponte delle Grazie, colpisce quella di Margaret AtwoodLe nostre vite” (in inglese “Book of lives: a memoir of sorts”): un ritratto affilato della grande autrice canadese, che non cede mai alla venerazione.

Il libro ricostruisce l’intellettuale Atwood accanto alla donna Atwood: le battaglie femministe, la lucidità politica, la capacità di leggere il presente prima che accada. Il Guardian sottolinea quanto questa biografia riesca a coniugare rigore e emozione senza trasformare l’autrice in un monumento: Atwood emerge come un essere umano prima che come simbolo.

I migliori Young Adult del 2025: tra telepati, attivismo queer e identità online

Nella sua selezione dei migliori libri Young Adult del 2025, The Guardian mette insieme cinque titoli che, più che “semplici” letture per ragazzi, sembrano piccole bussole morali per orientarsi in un mondo complesso. Niente comfort reading, niente adolescenze edulcorate: qui si parla di guerra, identità queer, attivismo, femminismo e vite sdoppiate tra reale e digitale.

Il viaggio comincia con “Torchfire” di Moira Buffini (Faber), secondo capitolo di una trilogia iniziata con “Songlight”. Siamo in un futuro distopico segnato da un conflitto intorno alla telepatia: i Brightlanders perseguitano chi possiede la “songlight”, gli Aylish la considerano un dono, mentre i Teroans – telepati che viaggiano nello spazio – trattano gli esseri umani “normali” come materiale sacrificabile.

La storia si frammenta in più fili narrativi, seguendo personaggi come Elsa, in fuga alla ricerca di un rifugio, Nightingale, costretta a compiacere un carceriere terrificante, e Rye, che inciampa in una scoperta destinata a cambiare tutto. Il risultato è un romanzo che usa la fantascienza come lente politica: parlare di telepati significa parlare di corpi “diversi” e di come una società decida se proteggerli o annientarli.

The Guardian sottolinea come il libro “bruci” come il fuoco del titolo, consumando il lettore pagina dopo pagina e lasciandolo nell’attesa impaziente del finale di saga.

Da un futuro ipotetico si passa alla storia recente con “We are your children” di David Roberts (Two Hoots), un’opera illustrata che ripercorre decenni di attivismo LGBTQ+ tra Regno Unito e Stati Uniti, dagli anni Cinquanta ai primi Duemila. Roberts parte da un ricordo personale – il bullismo omofobo subito da bambino – per mostrare come le parole possano ferire come pietre, ma anche raccontare coraggio, trasformazione, conquiste.

Nel libro scorrono la figura di Harvey Milk, le devastazioni dell’HIV/Aids, le marce, i sit-in, i gesti di resistenza minuscoli e giganteschi, accompagnati da illustrazioni vivacissime, piene di energia e orgoglio. Il tono, pur non nascondendo la violenza e il dolore, è quello della sfida, della gioia, della speranza: un modo accessibile e potente per ricordare ai lettori più giovani che i diritti di oggi nascono dalle lotte di ieri.

L’orrore, questa volta molto terreno, entra in scena con “No refuge” di Patrice Aggs e Joe Brady (David Fickling Books), graphic novel ambientata in una Gran Bretagna devastata dalla guerra civile. Hannah, Bea e il loro fratellino Dom sono costretti a fuggire da casa, seguendo un piano familiare che dovrebbe condurli alla riunione con il padre.

Ma la strada è disseminata di pericoli: soldati, confini invisibili, una burocrazia ostile che perseguita soprattutto i bambini in fuga. La “Green Zone”, in cui finiscono intrappolati, è un luogo di sicurezza solo di nome: in realtà è lo spazio in cui il controllo soffoca, la paura si fa sistema.

Le tavole di Aggs, dai colori smorzati e dalle inquadrature inquietanti, creano un senso costante di minaccia. The Guardian ne parla come di un libro “affina-empatia”, pensato non per intrattenere, ma per far sentire sulla pelle cosa significa essere rifugiati nel proprio paese.

Il tema dell’identità raddoppiata, metà reale metà avatar, domina “What happens online” di Nathanael Lessore (Hot Key). Fred, nella vita offline, è un ragazzino trasparente: il padre è spesso lontano, la madre è allo stremo, a scuola non lo vede nessuno. Online, invece, è Existor: gamer e streamer famosissimo, con una community che pende dalle sue labbra.

Quando decide di usare quella popolarità digitale per vendicarsi dei bulli, seminando voci false, il confine tra i due mondi esplode. Le bugie si propagano come un malware, e a pagare il prezzo non è solo Fred, ma anche chi lo circonda. Lessore, noto per il suo humour secco, riesce a tenere insieme leggerezza e serietà, parlando di autostima, vergogna, responsabilità senza moralismi, con un romanzo 13+ che il Guardian indica come una delle letture imperdibili dell’anno.

Chiude la cinquina “Feminist history for every day of the year” di Kate Mosse, illustrato da Sophie Bass (Pan Macmillan): un’opera ibrida, a metà tra almanacco e archivio visivo, che propone una storia del femminismo a misura di lettrice e lettore giovane.

Ogni giorno dell’anno è l’occasione per incontrare una pioniera: da Lilian Ngoyi, attivista anti-apartheid, alla designer di reggiseni Caresse Crosby, passando per figure più note come Florence Nightingale, Mary Wollstonecraft, Boudicca.

Ogni mese si apre con un saggio su temi come emergenza climatica, femminismo maschile, politica dei nomi, moda; il libro non nasconde le contraddizioni delle sue protagoniste, anzi Mosse invita apertamente a non “cancellare” chi non ci piace, perché «le donne, come gli uomini, contengono contraddizioni». Il messaggio finale è chiaro: la storia del femminismo è un lavoro in corso, e la nuova generazione ne fa già parte.

Messi insieme, questi cinque YA raccontano un 2025 in cui la letteratura per ragazzi non è “minore”, ma un laboratorio etico e politico: si parla di guerra, attivismo, bullismo, identità di genere, memoria storica. E lo si fa con linguaggi diversi – romanzo, graphic novel, albo illustrato – ma con la stessa ambizione: dare ai lettori giovani strumenti per leggere il mondo, non solo per evadere da esso.

I migliori libri di storia e politica del 2025

Nella sua selezione dei migliori libri di storia e politica del 2025, The Guardian parte da una constatazione amara: viviamo in un’epoca “iper-politica e al tempo stesso curiosamente priva di rivoluzioni”, dove le barricate sono state sostituite dagli hashtag. Forse è per questo, suggerisce la critica internazionale, che tanti autori quest’anno hanno guardato all’indietro, verso momenti in cui le idee sembravano ancora in grado di cambiare la realtà.

Il viaggio comincia negli anni Settanta del Medio Oriente con “The revolutionists” di Jason Burke (Bodley Head), che ricostruisce la stagione in cui si pensava davvero che il futuro potesse essere rosso anziché verde, comunista invece che islamista. Intersezionale.

È un libro popolato da “uomini in giacche di velluto a coste e basette, donne con teorie e mitra”, in cui la militanza si mescola all’attrazione per il caos puro: dirottamenti, rapimenti, attentati.

Burke mostra come quella promessa rivoluzionaria abbia generato tanto speranza quanto devastazione, e come oggi le nostre proteste arancioni di vernice lavabile sembrino quasi innocue al confronto.

A una rivoluzione più silenziosa, ma non meno incisiva, guarda “The alienation effect” di Owen Hatherley (Allen Lane): una sorta di biografia collettiva degli architetti, designer e registi mitteleuropei che nel Novecento trovano rifugio in Gran Bretagna, portando con sé un’idea radicale di spazio, città, società.

Hatherley racconta i “dimenticati” che hanno messo il cemento nel nostro skyline e scosso l’apatia borghese, tra ammirazione e rifiuto. Persino Ian Fleming, ricorda il Guardian, si vendicò del brutalismo chiamando “Goldfinger” un villain di Bond, in omaggio (o insulto) a uno dei suoi apostoli, l’architetto Ernő Goldfinger.

Da Londra ci spostiamo a Kabul con “The finest hotel in kabul” della corrispondente BBC Lyse Doucet (Hutchinson Heinemann). Qui l’oggetto della storia è un edificio: il celebre Intercontinental, raccontato come se fosse un testimone silenzioso della capitale afghana.

Dai tempi dei balli e dei bikini a bordo piscina negli anni Settanta, al suo trasformarsi in fortezza durante l’occupazione americana, il libro diventa una “storia popolare di Kabul”: un tributo agli abitanti che, nonostante invasioni e guerre civili, continuano a mostrarsi “gioiosamente esuberanti e ferocemente resilienti”.

Lo sguardo si sposta poi sugli Stati Uniti con “Homeland” di Richard Beck (Verso), che racconta come l’isteria post-11 settembre, esportata in Iraq e Afghanistan, sia tornata a casa sotto forma di paranoia autoritaria. Scritto in una prosa barocca, quasi pynchoniana, il libro sostiene che dal 2001 in poi nessun vero “liberal” abbia occupato la Casa Bianca: una tesi provocatoria, ma argomentata con rigore, che invita a rileggere vent’anni di politica americana sotto la lente della paura.

Uno dei libri più duri della lista è “A historian in Gaza” di Jean-Pierre Filiu (Hurst), breve e tagliente aggiunta alla sua monumentale “Gaza: A History”. Qui l’autore abbandona la distanza del grande affresco storico per un resoconto in prima persona della distruzione contemporanea: un testimone che cammina tra le rovine e registra, senza retorica, ciò che vede.

Il Guardian lo definisce un testo “imparziale” proprio perché non concede nulla alla propaganda: i palestinesi sono schiacciati tra il fanatismo di Hamas e la violenza etnica del governo Netanyahu, mentre il sostegno anglo-americano resta sullo sfondo come un’ombra ingombrante. Filiu capisce, scrive, perché Israele voglia tenere lontana la stampa internazionale da una scena così sconvolgente.

La libertà di parola – e i suoi limiti – è al centro di “What is free speech?” di Fara Dabhoiwala (Allen Lane), una storia intellettuale che segue l’ascesa della “libertà di espressione” da concetto ambiguo del XVIII secolo a sorta di religione civile contemporanea.

Il libro è un viaggio tra interessi, ipocrisie e idealismi, e arriva a una conclusione destinata a far discutere: forse oggi, nell’era delle polarizzazioni, siamo andati “troppo oltre” nel culto del dire qualsiasi cosa, senza più interrogarsi sulla responsabilità. Anche se si può dissentire, osserva il Guardian, è difficile non riconoscere la profondità della ricerca.

La storia politica inglese torna in primo piano con “Friends in youth” di Minoo Dinshaw (Allen Lane), che rilegge la guerra civile inglese attraverso una doppia biografia: due amici che finiscono ai lati opposti del conflitto, uno propagandista reale, l’altro vicino a Oliver Cromwell.

Tra lettere, pamphlet e destini divergenti, il libro diventa una meditazione sulla possibilità di restare amici nonostante le fazioni, un tema che il Guardian trova straordinariamente attuale in un Paese in cui i partiti faticano a conquistare perfino un quinto dell’elettorato.

La parte più esplosiva della selezione, però, è forse quella dedicata ai libri che incrociano politica, genere e lavoro. In “Minority rule” (Bloomsbury), la commentatrice Ash Sarkar firma una polemica brillante contro il centrismo, accusando tanto la sinistra liberal quanto la destra dei “culture wars” di essersi perse nel narcisismo delle piccole differenze identitarie.

Mentre si discute di safe space e decolonizzazione solo in termini astratti, sostiene, i lavoratori continuano a subire precarietà, austerità e gig economy. Meglio tornare a un conflitto di classe esplicito che accettare questa anestesia.

Emily Callaci, in “Wages for housework” (Allen Lane), riporta alla luce il movimento che negli anni Settanta chiedeva un salario per il lavoro domestico non pagato di madri e casalinghe. Attraverso ritratti vividi di figure come Mariarosa Dalla Costa, il libro mostra un femminismo più radicale e irriverente di certe sue versioni odierne: un femminismo che non piaceva né alla destra né a molti uomini di sinistra, pronti a bollare le attiviste come “castratrici” e “pervertite”.

A fare da contrappunto c’è “Motherland” di Julia Ioffe (William Collins), che segue l’arco della condizione femminile in Russia, dalla promessa emancipatrice della rivoluzione sovietica alla restaurazione patriarcale putiniana.

Attraverso una serie di ritratti scintillanti, Ioffe mostra come il machismo post-sovietico, benedetto dalla Chiesa ortodossa, abbia trasformato la sottomissione in virtù. Al confronto, commenta il Guardian, persino la casalinga anni ’50 delle pubblicità americane sembra una suffragetta.

Non mancano i libri che guardano alla crisi delle democrazie occidentali in chiave più immediata. “Ungovernable” di Simon Hart (Macmillan), ex chief whip conservatore, è un diario degli anni Johnson-Truss che, a detta del Guardian, fa sembrare il Marchese de Sade un autore per bambini: tra scandali sessuali, gaffe e caos istituzionale, restituisce un ritratto impietoso della classe dirigente britannica.

Original Sin” di Jake Tapper e Alex Thompson (Hutchinson Heinemann) ricostruisce la farsa gerontocratica americana: la gestione della salute mentale di Joe Biden, le gaffe pubbliche, i tentativi falliti di insabbiamento del Partito Democratico e il ritorno di un Trump ribattezzato in Cina “nonno delle 10.000 tariffe”. Il libro, osserva il Guardian, dice molto non solo sulla fragilità di un uomo, ma sulla natura quasi feudale della presidenza americana.

Sul versante teorico, “Those Passions” di TJ Clark (Thames & Hudson) suona come un requiem per il XX secolo, definito dal critico marxista “la nostra catastrofe”: un’occasione mancata per abbattere davvero le gerarchie. Clark intreccia arte e rivoluzione, da Malevič e Rodčenko fino a Rembrandt e Matisse, e rimprovera la sinistra per aver preferito immaginare utopie invece di costruire socialismo nel qui e ora.

A fare da contraltare, “Abundance” di Ezra Klein e Derek Thompson (Profile) predica il vangelo del techno-ottimismo: un manifesto per crescere, costruire, deregolamentare, convinti che fattorie verticali e centrali solari ci garantiranno un futuro di abbondanza. Panglossiano per alcuni, una boccata d’aria per altri.

Messe insieme, queste letture costruiscono un mosaico inquieto: rivoluzionari dimenticati, città plasmate da architetti radicali, conflitti globali, femminismi scomodi, democrazie stanche, utopie tecnologiche. Il filo rosso non è una tesi unica, ma una domanda: come siamo arrivati fin qui, e quale storia – o quale politica – può ancora aiutarci a immaginare un futuro diverso?

Se i romanzi raccontano come ci sentiamo, i libri di storia e politica scelti dal Guardian nel 2025 raccontano chi siamo diventati. E, soprattutto, quanto lavoro ci sia ancora da fare.

I migliori thriller del 2025: il ritorno dell’ansia morale

Secondo The Guardian, il 2025 è stato un anno particolarmente potente per il thriller: meno ossessioni da “serial killer brillante”, più attenzione alle zone grigie, al buio quotidiano, al limite sottile tra il bene e il male che tutti attraversiamo. È un genere che torna a farsi politico, emotivamente complesso, persino filosofico. Non è un caso che i tre titoli di punta della classifica – Mick Herron, Belinda Bauer e Uketsu – non condividano ambientazioni o stili, ma condividano la stessa domanda: che cosa succede quando il sistema fallisce, e l’unica bussola rimasta è la coscienza?

A guidare la selezione c’è “Slow horses” di Mick Herron, nuovo capitolo della saga Slough House, diventata un fenomeno globale grazie all’adattamento Apple TV. Herron continua a smantellare il mito della spia infallibile, sostituendolo con un gruppo di falliti, reietti, scarti dell’MI5 che nessuno vuole ricordare. E proprio per questo, inevitabilmente, gli unici a vedere ciò che il potere non vede più. Il Guardian parla di un romanzo “tremendamente umano”, in cui il pericolo maggiore non è il nemico esterno, ma l’inefficienza, la corruzione e il narcisismo della politica britannica. Herron non scrive thriller: scrive elegie del disincanto.

Di atmosfera completamente diversa ma altrettanto incisivo è “The impossible things” di Belinda Bauer, maestra nel trasformare la provincia inglese in un paesaggio minaccioso. Per Bauer l’orrore non è nascosto: è quotidiano. È nei silenzi delle famiglie, nelle colpe mai dette, nella paura infantile che continua a vivere negli adulti.

Il libro è un’indagine che scava nel passato di una comunità dove tutti proteggono qualcuno, ma nessuno dice veramente la verità. Il Guardian elogia il romanzo per la sua “precisione chirurgica”, e per la capacità di far sentire il lettore complice, quasi testimone di qualcosa di troppo vicino per essere ignorato.

Il titolo più sorprendente della lista è però “Stranger pictures” di Uketsu, autore giapponese diventato virale negli ultimi anni per le sue trame a orologeria che uniscono horror psicologico, satira sociale e thriller puro. Edito in Italia come “Strani disegni” è un romanzo spietato che immagina una società in cui alcune vite vengono “selezionate” in base alla loro presunta utilità. Non c’è sangue gratuito, sottolinea il Guardian: c’è un’abile costruzione della paranoia, un crescendo di inquietudine che trasforma la lettura in un’esperienza quasi fisica. Uketsu racconta la violenza istituzionale con una freddezza che disarma, e proprio per questo il romanzo resta addosso molto a lungo.

Questi tre libri – così diversi, così complementari – mostrano la direzione del thriller contemporaneo: non più solo omicidi da risolvere o fughe mozzafiato, ma un’indagine sul mondo in cui viviamo. Herron analizza le rovine della politica, Bauer quelle dell’intimità, Uketsu le distorsioni dell’etica collettiva. Un thriller, oggi, non è “solo un thriller”: è un romanzo che ci chiede di osservare dove stiamo guardando e, soprattutto, dove non vogliamo guardare.

The Guardian sembra suggerire che il brivido non nasca più dal mostro, ma dal sistema che gli permette di esistere. E forse per questo i migliori thriller del 2025 sono così efficaci: parlano della paura più grande di tutte, quella di non poter contare su nessuno, nemmeno sul mondo che abbiamo costruito.

I migliori romanzi tradotti del 2025: tra tempo rotto, cinema sotto il nazismo e Iraq postbellico

Nella sua selezione dei cinque migliori libri di narrativa tradotta del 2025, The Guardian fa una scelta chiarissima: niente “curiosità esotiche”, ma opere che spostano davvero il baricentro dello sguardo. Sono libri che arrivano da Corea, Danimarca, Germania, Scandinavia e Iraq, e che condividono un tratto comune: mettono in crisi il nostro modo di percepire il tempo, la storia, la colpa, la violenza.

Al centro della lista c’è “Non dico addio” di Han Kang. Il romanzo segna il ritorno sulla scena internazionale dell’autrice sudcoreana, premiata con il Nobel nel 2024, e combina la stranezza visionaria di La vegetariana con la profondità storica di Atti umani. Protagonista è Kyungha, una scrittrice alle prese con un corpo che manda segnali di cedimento – emicranie che arrivano “come ghiaccio che si incrina in lontananza” – e con un compito apparentemente semplice: accudire l’uccellino di un’amica regista, Inseon, ricoverata in ospedale.

Ma Inseon non è una regista qualunque: i suoi film raccontano i massacri rimossi della storia coreana, e nel momento in cui Kyungha si avvicina alla sua casa in campagna, in una scena sospesa tra sogno e realtà, la narrazione si apre al mondo dei morti, dei fantasmi, delle memorie che non smettono di insistere. È lì, in quella processione di presenze, che dolore fisico e trauma storico si toccano.

Il Guardian parla di quello passaggio come del cuore ipnotico del libro, e arriva a suggerire che questo possa essere il miglior romanzo di Han fino a oggi.

Se Han Kang lavora sul filo tra storia e visione, Solvej Balle rompe direttamente il tempo. In “on the calculation of Volume I e II” (Faber), tradotto da Barbara J Haveland, la protagonista Tara Selter si sveglia ogni giorno nello stesso giorno: il 18 novembre. Non è la commedia di Ricomincio da capo, avverte il Guardian, ma un esperimento filosofico sull’esistenza.

Tara è una libraia, una donna qualunque che improvvisamente smette di avanzare nel tempo: le giornate si ripetono identiche, mentre solo il suo corpo e la sua coscienza continuano ad accumulare esperienza. All’inizio prova a simulare il passare delle stagioni viaggiando tra città calde e fredde, poi impara a misurare il proprio “volume” nel mondo, la traccia che lascia negli altri, negli oggetti, nello spazio.

Alla fine del secondo volume – ne sono previsti altri cinque – iniziano a comparire minuscole crepe nel sistema: qualcosa non torna, forse nemmeno la regola più rigida è inviolabile. Il Guardian sottolinea come la serialità lenta di Balle agisca quasi come una pratica meditativa: più il tempo si ferma, più il lettore è costretto a interrogarsi su come spreca, o abita, le proprie giornate.

Con “Il regista” di Daniel Kehlmann, il viaggio si sposta nella storia del cinema europeo degli anni Trenta e Quaranta. Al centro c’è la figura del regista G. W. Pabst, che Kehlmann segue prima nella Hollywood dei produttori arroganti e dei colleghi vanitosi – un Fritz Lang che proclama, senza ironia, che Metropolis è il miglior film mai girato – poi nel ritorno in Austria, quando l’ombra del nazismo rende ogni scelta artistica una decisione morale.

Pabst vuole continuare a fare film, ma può farlo solo col beneplacito del regime. Il romanzo trasforma questo dilemma in un’epica ambigua e molto umana, in cui i personaggi secondari rubano spesso la scena: il figlio Jakob, sedotto dal fascismo; Leni Riefenstahl, con il suo “sorriso da teschio”; perfino un prigioniero di guerra d’eccezione come P. G. Wodehouse chiamato a fare da narratore imprevisto di un capitolo. “I tempi sono sempre strani”, si sente dire Pabst. “L’arte è sempre fuori posto.”

È forse la sintesi migliore del libro e del modo in cui Kehlmann ragiona sul rapporto tra creatività e compromesso.

Ancora più radicale, sul piano formale, è il progetto di Asta Olivia Nordenhof, che con “Money to Burn” e “The Devil Book” (Jonathan Cape), tradotti da Caroline Waight, costruisce una vera e propria septologia scandinava in corso d’opera. Qui il punto di partenza è un fatto reale: l’incendio di un traghetto nel 1990, con 159 morti e il sospetto di una truffa assicurativa.

Da lì, la scrittrice danese dilata la materia in molte direzioni, lasciando che la rabbia contro il capitalismo – “capitalism is a massacre”, si legge in una delle frasi più citate – innervi storie di amore, stupro, malattia mentale, arte. Il Guardian descrive questi romanzi come “un libro normale a cui siano stati tolti tutti i pezzi noiosi”: la struttura è sfilacciata, i nessi nascosti, il lettore deve lavorare per unire i punti.

Ma l’energia è travolgente, soprattutto quando la voce di Nordenhof si lascia andare a versi spezzati, quasi poetici, e confessa di non poter “fare tutto da sola”. È una narrativa in cui la forma stessa diventa forma di protesta.

Chiude la cinquina “Sololand” di Hassan Blasim (Comma), tradotto da Jonathan Wright: tre novelle ambientate tra l’Iraq del dopoguerra e l’esilio. Qui l’umorismo è un’arma di sopravvivenza. In una storia, una farmacista chiude bottega perché stufa dei miliziani dell’ISIS che vengono a chiederle il Viagra: dettaglio comico, finché il lettore non coglie a cosa servirà davvero. In un’altra, un ragazzo incaricato di gestire la casella email di un comandante si innamora di una delle donne che scrivono messaggi al suo capo. Altrove, in una delle immagini più crude del libro, i volumi della biblioteca si impregnano del sangue che filtra dal mattatoio dell’ISIS al piano di sopra: la letteratura letteralmente sotto assedio.

Il Guardian parla di “storie essenziali”, in cui il riso non cancella l’orrore ma lo rende appena sopportabile, ricordandoci che la finzione è anche un modo di resistere alla distruzione.

Presi insieme, questi libri mostrano cosa può fare la narrativa. tradotta quando non viene trattata come nicchia, ma come parte integrante del discorso letterario: ci porta in altri paesi, certo, ma soprattutto ci costringe a cambiare prospettiva su ciò che consideriamo normale.

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