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Michela Murgia, il femminicidio e la cultura che lo giustifica

Michela Murgia si è dedicata alle problematiche che comporta l'essere donna oggi, e lo ha fatto anche al Salone Internazionale del Libro presentando un libro scritto a quattro mani con Loredana Lipperini: “L'ho uccisa perché l'amavo. Falso”...

La scrittrice sarda è stata recentemente ospite al Salone del Libro di Torino con il suo nuovo libro “L’ho uccisa perché l’amavo. Falso”

TORINO – Michela Murgia si è dedicata alle problematiche che comporta l’essere donna oggi, e lo ha fatto anche al Salone Internazionale del Libro presentando un libro scritto a quattro mani con Loredana Lipperini: “L’ho uccisa perché l’amavo. Falso”. In un’intervista rilasciata a Libreriamo, l’autrice sarda svela i dettagli della propria opera.

 

Il nuovo libro che hai scritto con Loredana Lipperini e presentato a Torino ha catturato l’intenzione del pubblico in sala. Credi che riuscirà a trapelare il messaggio che ha intenzione di trasmettere?

Sì, o quantomeno lo spero. È un lavoro molto difficile quello di sensibilizzare la cultura, a maggior ragione se così radicata e riguardante un problema forte come quello del femminicidio. A volte ci siamo sentite dire: ‘il femminicidio dona più valore a delle morti rispetto alle altre, e ciò non è vero. Un morto è un morto’, ma ciò è un completo travisamento dei fatti. Noi ci rivolgiamo ad una parte specifica di omicidi che purtroppo si fatica ancora a comprendere perché culturalmente condizionata  e… a volte, giustificata. Noi però non intendiamo soltanto trattare di femminicidio, perché, una volta che una donna è morta, non è più possibile aiutarla: a noi interessa intervenire prima che avvenga tale delitto, andando ad intervenire sulla cultura del genere.

 

La coraggiosa lotta che state intraprendendo si scontra però con un nemico fondamentale e cui tu stessa ti stai implicitamente riferendo: la cultura, e con essa i mezzi che la ingabbiano come l’informazione povera che forniscono alcuni tipi di media. Cosa si può fare?

Quello che abbiamo intenzione di fare è di mettere in luce una trama dietro i fatti, una trama che ha origine in una concezione dell’uomo e della donna come sua proprietà. Più delle competenze dei giornalisti, noi vorremmo operare secondo un ‘codice’ che permetta di dare luce a quanto possa essere importante l’uso di una parola rispetto ad un’altra, o che operi secondo un punto di vista distinto rispetto a quello che classicamente ci si trova di fronte. E ciò vale a dire, un punto di vista di sottile acquiescenza, nascosto in termini che giustificano o stemperano la morte delle donne.

 

Che consigli si possono dunque dare ai giovani perché possano operare questo cambiamento, e ciò tanto nella cultura del rispetto della donna quanto negli altri campi?

Non è facile, ma bisogna imparare a guardare le cose secondo un altro punto di vista. Capire che i fatti che vengono riportati dai giornali sono sempre un qualche tipo di interpretazione, legittimante o meno, di un avvenimento che trova la propria origine in un sostrato culturale che spesso lo consente. Il cambiamento sta nel guardare le cose da un altro punto di vista, ascoltando le storie che non ci fa piacere sentire con quanta più comprensione possibile, ed infine agire. I cambiamenti di questo tipo partono prima di tutto dalle persone, per poi coinvolgere l’intero paese. Bisogna saper dire basta.

 

Andrea Arricale

26 maggio 2013

 

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