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Matteo Collura, ”Nel mio libro ripercorro e smonto tanti falsi miti della Sicilia”

La Sicilia come luogo del mito, miti di antica tradizione, derivanti da una cultura costruita nel corso di millenni, ma anche miti posticci, sbandierati come giustificazioni per certi mal costumi. Questa è la materia del racconto del nuovo libro di Matteo Collura, ''Sicilia. La fabbrica del mito''...

Lo scrittore e giornalista agrigentino ci parla del suo ultimo libro, “Sicilia. La fabbrica del mito”

MILANO – La Sicilia come luogo del mito, miti di antica tradizione, derivanti da una cultura costruita nel corso di millenni, ma anche miti posticci, sbandierati come giustificazioni per certi mal costumi. Questa è la materia del racconto del nuovo libro di Matteo Collura, “Sicilia. La fabbrica del mito”, che lo scrittore e giornalista del Corriere della Sera nato ad Agrigento, autore del best seller “Sicilia sconosciuta”, ci presenta qui.

Com’è nato questo libro? Ci può raccontare il percorso di composizione e le fonti da cui ha attinto?
Il libro viene da un mio antico lavoro sulla Sicilia, che è iniziato molti anni fa e ha in altri due titoli di miei libri due momenti importanti. Uno è “In Sicilia”, pubblicato da Longanesi nel 2004, che racconta un mio personalissimo viaggio attraverso la terra che mi ha visto nascere – e da cui manco da trentacinque anni, da quando mi sono stabilito a Milano – alla ricerca dei segni del passato e del presente. L’altro è “L’isola senza ponte”, del 2007, in cui si parla dell’insularità come destino. L’insularità della Sicilia infatti è una questione piuttosto complessa. Si può quasi dire che non si tratti di una vera e propria isola: dista dalla Calabria solo tre chilometri, di fatto è praticamente legata alla terraferma. Mentre l’insularità dei sardi è reale, quella dei siciliani è più psicologica, mentale. Dopo questi due volumi viene “Sicilia. La fabbrica del mito”, in cui si racconta la Sicilia come, appunto, luogo del mito. Miti di antica tradizione – per via della sua posizione al centro del mediterraneo, infatti, la Sicilia si è trovata al centro della storia della civiltà occidentale, o almeno di una parte dell’Occidente – ma anche miti posticci, presunti tali, inventati, sbandierati dai siciliani come una sorta di arti.

 

Lei fa riferimento tra gli altri al mito di Persefone, Proserpina per i romani, la fanciulla rapita dal dio greco degli inferi Ade, chiamato dai romani Plutone, che aveva in Sicilia la sua sede…
Sì, secondo il mito in Sicilia avvenne questo rapimento, che diede luogo all’alternarsi delle stagioni. Grazie a un compromesso escogitato da Giove infatti, Proserpina poté essere restituita alla madre Cerere, la dea delle messi, ma solo per sei mesi l’anno – i sei mesi della bella stagione. Negli altri sei, quelli autunnali e invernali, doveva stare insieme al marito Plutone. Quello tra Proserpina e il dio degli inferi fu il primo matrimonio riparatore: in Sicilia l’uso della fuitina, la fuga dei fidanzati non ancora sposati, aveva la sua origine proprio nel ratto di Proserpina da parte di Plutone. Fino a una trentina di anni fa, tra l’altro, il rapimento a scopo di stupro non veniva punito dalla legge se lo stupratore accettava di sposare la sua vittima. In proposito, nel mio libro si ricorda una storia straordinaria, che ha contribuito più di mille altre rivoluzioni a modificare il costume e a far fare alla Sicilia dei passi in avanti: la storia di Franca Viola. Questa donna nel 1965 rifiutò di sposare il ragazzo che l’aveva rapita con la violenza e stuprata affinché lei acconsentisse ad unirsi a lui in matrimonio. Questo rifiuto segnò un momento di passaggio importantissimo per la civiltà siciliana.

Tra i racconti che riporta nel libro, quale secondo lei incarna meglio la sua Sicilia?
Direi tutti: la vicenda del bandito Giuliano, quella di Franca Viola che ho appena citato, i monaci di Mazzarino. E poi quella figura tragicamente buffa di Genco Russo, che fu creduto uno dei più grandi capi mafia, ma che in realtà – se si va a studiare bene la sua biografia – era un poveraccio, senz’altro furbo, anche violento, in grado di terrorizzare gli altri, ma soprattutto era un grande elettore della Democrazia Cristiana di allora.  O ancora il rapimento del barone Agnello, che tra l’altro fu intimo amico di Tomasi di Lampedusa, anche questo inizialmente imputato alla mafia e invece opera di giovinastri alle prime armi, assolutamente incapaci di portare a termine un sequestro a fini di estorsione. Racconto inoltre di Cagliostro, di Raymond Roussel, che fu il padre dei simbolisti francesi, di Aleister Crowley, il satanico inglese. Tutti questi personaggi venivano in Sicilia a cercare una sorta di mostro meraviglioso che li avrebbe sorpresi, affascinati e infine bruciati, una sorta di contrappasso di meraviglie. E poi la scomparsa di Majorana, con tutto quello che sta venendo fuori sulle sue presunte simpatie per la Germania nazista, la Real casa dei Matti, gestita nella prima metà dell’Ottocento dal barone Pietro Pisani, che creò prima ancora dell’Unità  di Italia a Palermo uno dei manicomi più moderni d’Europa. Infine i mostri apotropaici di cui il principe di Palagonia circondò la sua villa, per tenere lontani i barbari di allora. È una folla di personaggi e storie che io rivisito per dimostrare che spesso in Sicilia il mito è un alibi costruito a tavolino, per farne il luogo dove tutto è possibile, dove tutto viene perdonato.

Ma perché in Sicilia il mito continua a vivere così forte?
I siciliani hanno continuato sempre a coltivare il mito per comodo. Prendiamo per esempio il mito del clima: si sono inventati che questa terra è un annuncio d’Africa, con estati estenuanti, terre riarse, aridità. In realtà, sono forse anni che in Sicilia piove quasi come al Nord. O ancora il mito dell’isolamento dovuto all’insularità. A questo proposito, abbiamo già detto che la Sicilia è un’isola solo a metà: se da Messina si guarda dall’atra parte si possono quasi toccare con mano le luci della Calabria. Giuseppe Antonio Borgese, grande scrittore, critico e giornalista del Corriere della Sera, definì la Sicilia “un’isola non abbastanza isola”. Questo probabilmente crea dei complessi ai miei conterranei, che desiderano sentirsi isolani per potersi definire emarginati, abbandonati dallo Stato centrale. Da questa prospettiva, qualunque aiuto possano ricevere, anche economico, sarà sempre niente rispetto a quello che sostengono di aver subito come isola e terra di conquista. Infine anche il mito della mafia. Non è che la mafia non esista, ma i giornalisti spesso finiscono per mitizzare e chiamare mafiosi personaggi ed episodi che apparterrebbero più semplicemente alla cronaca nera. In Sicilia tutto diventa mafia. Forse invece bisognerebbe iniziare ad arrestare i personaggi pubblici che non fanno il loro dovere, anziché dare sempre la colpa alla mafia, se per esempio un palazzo crolla, o se d’estate ci sono numerosi incendi dolosi. Si dovrebbe insomma lavorare più sulla realtà per trovare chi provoca certi guasti, invece che attribuirli genericamente alla mafia. In questo caso anche la mafia può essere un alibi, sbandierato da chi a parole la condanna, ma sotto sotto è in prima persona un cultore della mentalità mafiosa. C’è una differenza fondamentale tra la mafia e la mentalità mafiosa: mentre la prima, nella lotta coraggiosa condotta dalla magistratura, subisce duri colpi, la seconda rimane inalterata e intoccata. Se non si cambia questa, che riguarda tutta la società – l’aristocrazia, il ceto medio, i poveretti, i disoccupati, i funzionari pubblici e privati – difficilmente si può sconfiggere la mafia vera e propria, che in questa mentalità trova il suo terreno fertile.


Qual è l’immagine della Sicilia che vorrebbe riuscire a trasmettere al lettore con questo libro?

Io mi auguro che la Sicilia prima o poi possa entrare in Europa a pieno titolo, nello stesso tempo portandosi dietro quest’aura mitologica che le appartiene e che la dà il suo fascino, depurata però da tutti le mistificazioni.

29 aprile 2013

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