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Mario Sechi, ”Il mio libro racconta un Paese in grado di far sognare e realizzare i sogni: l’Italia”

Il carattere italiano รจ sinonimo di genio. A leggere questa dichiarazione la reazione di stupore viene spontanea tanto siamo abituati, noi italiani, ad autocommiserarci e a darci per vinti. E invece abbiamo superato prove enormi, e siamo in grado di superare anche la crisi attuale: รจ il messaggio che ci lancia ''Tutte le volte che ce l'abbiamo fatta'' di Mario Sechi. Alla fine dell'articolo รจ possibile leggere in anteprima il primo capitolo del libro...

Il giornalista e direttore del quotidiano “Il tempo” parla del suo libro, “Tutte le volte che ce l’abbiamo fatta”, dei nostri successi passati e del futuro del nostro Paese

MILANO – Il carattere italiano è sinonimo di genio. A leggere questa dichiarazione la reazione di stupore viene spontanea tanto siamo abituati, noi italiani, ad autocommiserarci e a darci per vinti. E invece abbiamo superato prove enormi, e siamo in grado di superare anche la crisi attuale: è il messaggio che ci lancia “Tutte le volte che ce l’abbiamo fatta” di Mario Sechi. Il direttore del quotidiano “Il Tempo” parla del suo libro, del nostro Paese, della nostra storia e del nostro futuro.

Qual è l’immagine del nostro Paese che ha voluto disegnare nel suo libro?
Quello capace di far sognare e realizzare i sogni. I costruttori e non i distruttori. Gli italiani hanno plasmato l’immaginario di tutto il mondo con gli inventori, i cantanti, i sarti, gli attori, i registi, gli industriali, gli scrittori. Il carattere italiano è sinonimo di genio, imprevedibilità e, se vuole, anche un energetico disordine. Pensi a Mimmo Modugno: “Volare” arriva nel momento giusto, anni Cinquanta, l’America progetta la sua avventura nello spazio e nel mondo c’è voglia di ascesi, di verticale, di volo dopo la tragedia della Seconda Guerra Mondiale. Un italiano nato in Puglia inventa una canzone, “Nel blu dipinto di blu”, e coglie l’attimo fuggente, quello che crea un successo e un immaginario collettivo, quando sugli schermi della televisione americana, all’Ed Sullivan Show, apre le braccia e canta “Volare”. Strike. E nei giorni nostri, lei immagini l’avventura di Sergio Marchionne, che compra un mito americano, Chrysler, e lo salva dal fallimento, dando nuova vita a un’avventura fatta di acciaio, creatività, qualità e un nome leggendario dell’industria mondiale. Detroit, la Motor City, è tornata a vivere grazie a un italiano educato in Nord America, ma nato a Chieti, Sergio Marchionne. E lo stile di Hollywood? Ci ha mai pensato? Senza il taglio e cucito delle sorelle Fontana non sarebbe lo stesso. Tutta la storia delle star di un’epoca, la nascita del jet-set mondiale, è legata agli abiti delle sorelle Fontana. Nel loro laboratorio entravano e uscivano i divi del momento e i politici che avrebbero segnato un’epoca: da Ava Gardner a Jaqueline Kennedy con il mitico JFK. L’Italia non ha perso nessuna delle sue qualità, ma deve tornare a credere in se stessa. Basta con il peggioriamo, questo Paese ha tutte le capacità per andare avanti e uscire dalla crisi più forte di prima.

In base alla sua analisi, a quali tratti del nostro carattere nazionale e della nostra storia è dovuto l’atteggiamento di “sconfitti” che spesso assumiamo? Perché non abbiamo memoria delle nostre vittorie?
Perché è molto più facile e comodo raccontare la sconfitta e piangersi addosso. Fatto questo, non hai la responsabilità di creare qualcosa, di costruire. Criticare e demolire è di una mostruosa facilità, ma nello stesso tempo lascia un senso di vuoto e abbattimento nell’immaginario collettivo. Veniamo da decenni di piagnisteo. Non serve a niente: né a fare l’analisi dei propri errori né a trovare le soluzioni. Perché insieme agli errori ci sono anche le cose positive che vengono nascoste e – ripeto – trovare la soluzione implica una conoscenza reale del problema e la sua implicita soluzione. C’è poi un livello del dibattito pubblico basso, chiuso, inutile. Se tu dici a un giovane: non farlo, tanto è impossibile, lo scoraggi subito. E anche le buone idee finiscono nel dimenticaio del non fatto. Questo per un popolo che ha il patrimonio della seconda manifattura d’Europa è un colossale errore. I peggioristi pensano al loro fatturato, ma non contribuiscono a quello del Paese. Abbiamo inventato la modernità e poi abbiamo lasciato che fossero gli altri a produrre i beni che noi avevamo originato con il nostro genio. Bisogna invertire la rotta. E si può fare.

Nel  suo libro fa una carrellata delle grandi personalità artistiche e scientifiche italiane dal Risorgimento ai giorni nostri. Quali personaggi di oggi suggerisce agli italiani di prendere a modello per il loro riscatto?
Per centrare l’obiettivo servono grandi doti, ma soprattutto tenacia e spirito di sacrificio. Immagini l’impresa di Pietro Paolo Mennea, l’uomo più veloce del mondo, l’ultimo bianco. Nasce a Barletta, nel Sud, in una famiglia povera, ha un fisico da fringuellino, lontanissimo dalla scultura di muscoli di un Usain Bolt, ma con l’allenamento, il duro lavoro, la concentrazione, la determinazione e la voglia di raggiungere il risultato, batte tutti a Città del Messico sui 200 metri e realizza il record del mondo. Poi progetta di vincere l’oro olimpico e a Mosca corona il suo sogno. Mennea aveva fame. Materiale ma soprattutto cerebrale, aveva una missione e l’ha portata a termine. Quando incontrò Mohammed Alì, il più grande pugile di tutti i tempi, si sentì salutare così: “Ma tu sei bianco”. E Mennea rispose: “Sì, ma dentro sono più nero di te”.

Purtroppo in Italia si legge poco, ma proprio i libri potrebbero avere un ruolo importante  nel creare quella memoria di cui lei rimprovera agli italiani la mancanza. Non crede? Cosa si potrebbe fare per cambiare questa situazione?
I libri sono il fondamento della nostra educazione. E dobbiamo trattare l’editore come qualcosa di inestimabile. Serve un regime fiscale migliore di quello attuale, incentivi per la lettura e un capillare lavoro nelle scuole. Gli italiani di domani sono i piccoli di oggi. Senza educazione non c’è una nazione. Dobbiamo innestare nella nostra grande tradizione di studi letterari, giuridici ed economici, la tecnologia. Tornare a collegare – come fece Giulio Natta, un italiano, l’inventore della plastica – l’industria alla scuola, la produzione al sapere. I libri al mondo reale e non alla polverosa accademia costruita per sfornare professori e non invece italiani che creano il futuro.

 

Guardando al futuro, qual è il messaggio che vuole dare al nostro Paese? Gli italiani ce la faranno secondo lei a reagire e a uscire dalla crisi che stanno vivendo?
In Tutte le volte che ce l’abbiamo fatta c’è lo scenario della contemporaneità, la narrazione del nostro passato, gli esempi di ieri e di oggi per farcela. E noi ce l’abbiamo fatta, ce la facciamo e ce la faremo. L’Italia ha superato prove enormi: è diventato un Paese unito quando nessuno ci avrebbe scommesso un soldo bucato, si è risollevata dalle macerie della guerra agganciando l’industrializzazione e creando il miracolo economico, ha superato l’Utopia armata del terrorismo e costruito un benessere inimmaginabile per i nostri padri e i nostri nonni e chi prima di loro aveva sognato un Paese unito. Siamo grandi – la terza economia d’Europa – ma abbiamo dimenticato il valore di fare sistema, lavorare insieme, creare una narrazione collettiva, credere nella scuola. Dimenticato però non significa che non si può fare, basta rimettersi in marcia, tutti insieme. Ce la facciamo, ne sono convinto, perché gli italiani, alla fine, di fronte allo shock, reagiscono e dimostrano di essere i migliori nelle arti, nelle professioni e nei mestieri. “Tutte le volte che ce l’abbiamo fatta” è questo, un canto libero e un impegno con noi stessi per costruire il futuro che poi i nostri figli, a loro volta, sapranno interpretare, aggiornare, rendere ancora migliore. I pessimisti non hanno mai vinto una guerra. Meucci inventò il telefono e fino all’ultimo giorno della sua vita si batté per vedere riconosciuta l’invenzione che l’americano Bell gli aveva fregato. Fermi non si fermò nelle sue ricerche sull’atomica perché sapeva che dal suo impegno e dalla sua conoscenza dipendeva l’esito della guerra, Marconi inventò la radio perché credeva in quello che faceva e quando il ministro delle Poste rispose a una sua offerta dicendo che doveva andare al manicomio, non si perse d’animo. Marconi è eterno, quel pessimista ministeriale è finito nella polvere. La storia la fanno i grandi uomini che hanno una visione e la trasformano nell’immaginario di tutti. Riccardo Muti quando dirige un’orchestra trasporta il pubblico verso un mondo magico, questa è la grandezza del talento. E gli italiani ce l’hanno e per questo ce la faranno.

 

14 novembre 2012

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