C’è stato un tempo in cui la storia era dominio maschile, e la letteratura che la raccontava, terreno ancor più esclusivo. Poi arrivò Maria Bellonci, e tutto cambiò. Con la sua scrittura ricca, elegante, barocca eppure chirurgica, Bellonci fece esplodere le corti italiane del Rinascimento in tutta la loro grandiosità contraddittoria: piene di bellezza e di morte, di potere e di desiderio, di riti, segreti e crudeltà.
A distanza di decenni, i suoi romanzi storici restano tra i più lucidi, sensuali e sofisticati mai scritti in Italia. Nata a Roma nel 1902, da famiglia umbra, Maria Bellonci è stata scrittrice, saggista, biografa e intellettuale tra le più influenti del Novecento.
Fondatrice insieme al marito Goffredo Bellonci e a Guido Alberti del Premio Strega, fu la prima a portare il romanzo storico italiano fuori dai cliché melodrammatici ottocenteschi, trasformandolo in un corpo vivo e palpitante, in cui la ricerca archivistica si mescolava alla tensione letteraria, e la fedeltà storica non escludeva mai l’indagine psicologica.
Maria Bellonci, regina del romanzo storico: una voce sontuosa, sensuale e spietata
Maria Bellonci è la regina italiana del romanzo storico, ma sarebbe riduttivo etichettarla solo così. È stata una pioniera, una costruttrice di visioni, una drammaturga della memoria.
Con I segreti dei Gonzaga ha scritto non solo una delle opere più alte sulla corte mantovana, ma un ritratto universale del potere e della sua solitudine. Riscoprirla oggi significa riscoprire il piacere della scrittura pensata, della storia umana, del dubbio che si insinua tra le certezze. Significa, soprattutto, imparare a guardare il passato non come archivio, ma come specchio.
I Gonzaga: la bellezza, la carne, il potere
Tra le opere che meglio incarnano la visione di Bellonci c’è senza dubbio “I segreti dei Gonzaga”, pubblicato nel 1947 ma più volte rivisitato dall’autrice, che non smise mai di lavorarci. Non è un romanzo tradizionale: è un mosaico narrativo, un’indagine a ritroso su una delle corti più fastose e ambigue della storia italiana.
In quelle stanze decorate a fresco, in quei corridoi sontuosi, in quelle alcove silenziose, Bellonci scova non solo la verità storica ma la verità intima, carnale e spietata del potere.
Il libro esplora la dinastia dei Gonzaga in tutta la sua estensione temporale, dai fasti di Ludovico III alle tensioni del tardo Cinquecento. Ma non è solo una ricostruzione: è un racconto psicologico, quasi psicoanalitico, di come il potere divori, trasfiguri, costringa alla maschera.
Le pagine sono popolate da personaggi che sembrano scolpiti nella carne: Isabella d’Este, Federico II, il Cardinal Ercole Gonzaga… figure in bilico tra grandezza e follia. “Crudeltà della ragione dinastica; crudeltà, morbosa e sfrenata, del sesso e dell’amore; crudeltà del fasto e della ricchezza, impotenti contro le leggi della natura e della vita.” In queste parole si concentra la visione spietata di Bellonci: il potere non salva, il lusso non redime, l’intelligenza stessa, anche quella più raffinata, può essere una trappola.
Il mondo dei Gonzaga diventa così lo specchio di ogni corte, di ogni sistema sociale chiuso, di ogni meccanismo dove il privato è sacrificato all’apparenza, alla funzione, alla forma.
L’arte della narrazione storica
Maria Bellonci non si limitava a riportare i fatti. La sua scrittura agisce su più livelli: documenta, interpreta, trasfigura. La fonte storica, per lei, non è mai fine a sé stessa. È un innesco. Una miccia. Un detonatore per accendere la sua immaginazione.
La narrazione si fa così strumento per rivelare il non detto, lo spazio bianco tra le righe, ciò che i documenti nascondono: le emozioni, i dubbi, i silenzi, le ossessioni.
In questo senso, Bellonci è molto più vicina a Marguerite Yourcenar che a un cronista. Se “Memorie di Adriano” ci faceva ascoltare la voce di un imperatore, “I segreti dei Gonzaga” ci portano a sussurrare dietro i tendaggi della corte, in una dimensione quasi onirica, dove la storia è allo stesso tempo concreta e mitica. Il suo stile, ricco e lavorato, è parte integrante della sua poetica. Non c’è artificio: c’è profonda consapevolezza retorica, c’è studio, c’è ritmo.
La sua scrittura è piena di barbagli e increspature , come i broccati che vestivano i suoi personaggi. Eppure, non è mai puro esercizio. Ogni parola porta con sé una temperatura, un odore, una sfumatura.
Oltre i Gonzaga: la corte come metafora
Il merito di Maria Bellonci non sta solo nella ricostruzione impeccabile di epoche lontane, ma nel saper rendere universali i meccanismi di potere e desiderio.
Le sue corti rinascimentali non sono solo affreschi di un tempo finito: sono modelli che si ripetono, palcoscenici eterni di ambizioni, esclusioni, passioni proibite.
Con Lucrezia Borgia (1939) e Rinascimento Privato (1985), Bellonci ha tracciato ritratti memorabili di donne forti, ambigue, strategiche, costrette a giocare secondo le regole degli uomini. Figure storiche trattate non con pietismo né esaltazione, ma con uno sguardo lucido e moderno. Mai sottomesse, sempre complesse.
Un’eredità da riscoprire
Oggi, Maria Bellonci è forse meno letta di quanto meriterebbe. Eppure, il suo lascito è ovunque: nella nuova narrativa storica che osa ibridare linguaggio e visione; nel modo in cui guardiamo alle figure femminili della storia; nella capacità, sempre più rara, di coniugare rigore e immaginazione.
La sua opera è un invito alla profondità. A capire che la storia non è mai oggettiva, che ogni documento è già interpretazione, e che il compito della scrittura non è semplificare, ma illuminare le zone d’ombra .