C’è un corridoio di luce e ombra sulla copertina della nuova edizione Theoria; in fondo, una figura nera che avanza come se stesse rientrando nel proprio passato o uscendo da esso. È l’immagine giusta per “L’uomo scarlatto” di Paolo Maurensig, romanzo breve e nerissimo in cui l’identità si misura a colpi di memoria e di pelle.
Un uomo sopravvissuto a un incendio — senza volto, senza ricordi, senza voce che non sia dolore — si sottopone nella clinica Neuhaus, sulle sponde del lago di Costanza, a una serie di trapianti di pelle. Attorno a lui ruotano figure che sembrano venire da un teatro delle ombre: madame Orlova, medium che coltiva una fame più terrena che mistica; Sussex, disegnatore ossessionato dal viso sfigurato del protagonista; Egon Forti, medico sedotto dall’idea di sconfiggere il tempo.
Si entra con Maurensig in un’anticamera dell’aldilà dove la materia è carne, ma la posta in gioco è l’anima.
La critica ha letto il libro come una variazione “mistico-gotica” dentro il catalogo maurensighiano, un racconto che sconfina nella parabola morale pur mantenendo il respiro del noir.
Un thriller metafisico, quasi una fiaba crudele sotto le dita dell’autore che “fa della lingua una lama” mentre interroga colpa, ossessione, reincarnazione del sé. Sono osservazioni utili per entrare nel laboratorio di uno scrittore che ha sempre usato trame ad alta tensione per parlare del nostro lato più fragile e più segreto.
A oltre vent’anni dall’uscita, il libro porta ancora la firma riconoscibilissima di Maurensig: quella misura mitteleuropea, a un passo dalla stube (tipica stanza d’abitazione alpina rivestita in legno e riscaldata da una grande stufa in maiolica o in muratura) e a un passo dal giudizio; quella prosa tersa che s’intorbida di simboli; quel gusto di “fabula e metafabula” che già all’epoca veniva segnalato come una scommessa riuscita.
Un uomo senza volto, la clinica come limbo
La trama è semplice e bruciante: un incendio ha ridotto a carne viva il protagonista. Non sappiamo chi sia; sappiamo che vuole tornare a essere qualcuno. La clinica Neuhaus è il suo purgatorio: luogo tecnologico e rituale al tempo stesso, in cui le innumerevoli innesti di pelle non guariscono soltanto la superficie, ma tentano — vanamente — di cucire la memoria a un corpo.
Nelle stanze dai corridoi lunghi e bianchi, l’umanità appare come un insieme di esperimenti morali: chi usa il dolore altrui per alimentare il proprio potere, chi lo sublima in arte, chi lo seziona in nome della scienza. Maurensig allestisce un dispositivo narrativo tanto essenziale quanto perturbante: il lettore si specchia nell’uomo scarlatto e si chiede quanto di quel rosso sia sangue e quanto sia volontà di rinascere.
Tre tentazioni: potere, immagine, immortalità
Le tre figure che circondano l’io ferito incarnano tre forme di seduzione. Madame Orlova promette una scorciatoia spirituale, ma sotto il velo medianico ha la fame concreta di chi traffica con le debolezze.
Sussex, il disegnatore, offre al protagonista il miraggio dell’immagine, cioè un volto ricostruito almeno sulla carta: è la retorica dell’arte come seconda pelle, e Maurensig ci chiede se una faccia disegnata possa diventare più vera di quella biologica.
Egon Forti incarna l’hybris scientifica: non il medico misericordioso, ma il demiurgo che gioca coi tessuti per prolungare il dominio dell’Io. In ciascuno di loro, il protagonista cerca una via d’uscita e scopre un labirinto.
La fiamma originaria
Il romanzo lavora sull’immagine originaria del fuoco. Non è solo la causa del trauma: è una passione nel senso etimologico, un patire che purifica e insieme deturpa. Nelle pagine di Maurensig la combustione è metamorfosi: consuma la pelle, libera l’essenza, ma anche la espone al rischio della menzogna.
La clinica è un “tempio freddo” in cui il fuoco si tramuta in ghiaccio chirurgico; eppure ogni gesto di cura — un innesto, una medicazione — riscalda di nuovo la materia e la riaccende. Da qui l’ambiguità: guarire significa tornare com’era o diventare altro? L’identità è restauro o apocrifo? Questa è la domanda che abita il libro.
Simboli e metafore: ciò che “scarlatto” nasconde
Il colore come ferita e come maschera
“Scarlatto” porta in sé la radice di scar, cicatrice: la parola contiene l’idea di un rosso che resta, che segna. In Maurensig il colore è metafora di colpa e di visibilità forzata. Dove tutto vorrebbe coprirsi, lo scarlatto obbliga a guardare; dove tutto vorrebbe essere unico, lo scarlatto uniforma: tutte le ferite alla fine si assomigliano. Il protagonista, ridotto a un tono cromatico, viene de-individualizzato prima di essere ricostruito. E qui si apre la riflessione più crudele: quanti di noi sono ridotti al loro colore sociale, alla loro livrea di ruolo? Anche quando la pelle torna liscia, la macchia sembra restare.
La clinica come teatro dell’io
La Neuhaus non è un semplice ospedale: è un teatro dell’identità. Ogni stanza è un palcoscenico, ogni medicazione una scena di prova, ogni sguardo un giudizio. L’uomo scarlatto guarda al corpo come a un testo riscrivibile, e al tempo stesso lo presenta come un documento che non si lascia falsificare del tutto.
La pelle nuova fa attrito con la memoria che non c’è: come far coincidere un volto con un passato? In questo attrito nascono le pagine migliori del romanzo.
L’arte come seconda pelle
Il personaggio del disegnatore, Sussex, apre il capitolo più suggestivo. L’arte offre un rimedio provvisorio: se la biologia non può dare un volto, la raffigurazione lo restituisce e lo moltiplica. Maurensig ragiona sul ritratto come atto morale: fissare un viso significa decidere che cosa farne.
È la vecchia questione — il potere del simulacro — calata in una trama che mette alla prova il nostro bisogno di riconoscerci.
Il modo di raccontare: una favola nera dalle cadenze mitteleuropee
Nel cimitero elegante della narrativa di Maurensig, ogni cosa ha un tono basso, una misura quasi musicale. Non servono macchinari verbali per spaventare: bastano una prosa cristallina e la geometria dell’intreccio. È quel tratto che i giornali hanno spesso indicato come la sua cifra: la compostezza formale che nasconde la tensione morale.
La poetica emerge con chiarezza anche negli omaggi necrologici: la Repubblica ricordava l’autore come lo scrittore di “ossessioni, doppi e destini” nato con La variante di Lüneburg e capace di restare sempre fedele a un’idea severa del narrare. Quella fedeltà si ritrova qui: niente compiacimenti, nessun barocco dell’orrore, soltanto la disciplina di un interrogatorio etico.
Una pagina dedicata da La Stampa – Tuttolibri al romanzo, firmata da Bruno Quaranta, parla di “fuoco folle”, formula felicissima che dice quanto la combustione del protagonista sia insieme catastrofe e chiamata. È l’elemento da cui tutto parte e a cui tutto ritorna, come nelle parabole in cui si esce dal deserto più leggeri e più segnati. Anche il titolo della recensione serve da bussola per leggere l’opera.
Sullo stesso crinale si muove la lettura pubblicata su Aphorism.it, che insiste su una narrativa “intrisa di simboli e metafore”, capace di far convivere disincanto e pietà: la clinica appare come un microcosmo morale, il protagonista come un Giona risputato in terra dopo l’abisso. Lì si sottolinea la capacità di Maurensig di far piegare il genere — thriller, gotico, soprannaturale — a un’indagine sulla responsabilità.
Differenze e continuità con il “vecchio” Maurensig
Dal violino allo specchio della pelle
Chi arriva a L’uomo scarlatto avendo in mente Canone inverso o La variante di Lüneburg troverà un’altra musica. Là dominava la ossessione intellettuale (gli scacchi, il violino) che portava i personaggi all’orlo di sé; qui l’ossessione è carnale, anzi epidermica. E tuttavia la meccanica del destino è la stessa: gli individui sono costretti a misurarsi con un nodo che li precede e li oltrepassa, e la scrittura li spinge a guardarlo senza veli.
La precisione dei disegni di Sussex ha il medesimo rigore delle partiture musicali o delle combinazioni scacchistiche dei romanzi precedenti. Cambia l’oggetto, non cambia l’idea: l’arte come campo di prova del male e del bene.
Meno cronaca, più allegoria
Nell’uomo scarlatto, la cronaca arretra. Ci sono i trapianti, ci sono i corridoi asettici, ma quasi non ci interessano le tecnicalità. Quello che importa è il valore allegorico: la sostituzione dei tessuti come allegoria della sostituzione dell’Io. È davvero possibile rimettersi in piedi senza diventare qualcun altro? O ogni guarigione pretende una morte precedente? Maurensig non chiude il discorso; fa di meglio, ci lascia con un’inquietudine fertile.
Una lettura della clinica: il laboratorio morale di una società
La Neuhaus sembra raccolta in Svizzera, neutrale per definizione. Ma nel romanzo la neutralità non esiste. I pazienti diventano materiale umano; il carisma, la bellezza, la voce sono monete di scambio; il dolore è una energia che ognuno cerca di piegare al proprio scopo.
Il risultato è un teatro politico a basso volume: l’individuo come risorsa da gestire, il corpo come capitale da investire. In quest’ottica i tre comprimari – Orlova, Sussex, Forti – rappresentano modalità diverse di sfruttamento: spirituale, estetico, scientifico. Maurensig non emette sentenze, ma le sue scene sono giudizi in atto.
Il ritmo e la lingua: perché il libro “fa male” senza urlare
La scrittura procede per frasi brevi, incidenti luminose, riprese. L’andamento è quasi musicale: un tema (la pelle), variazioni (le cure, i ritratti, le sedute), poi il ritorno del tema (il fuoco). L’effetto è di ipnosi sobria: si legge senza inciampi, ma ogni pagina lascia una frizione.
Questo ritmo produce la cosa più difficile: un dolore nitido, mai sfrangiato nel patetico. Chi conosce Maurensig sa che qui si concentra una delle sue virtù: il pudore. Non c’è compiacimento dello scempio, c’è la ferocia di guardarlo e di chiamarlo per nome.
Temi portanti: cosa resta dopo l’ultima pagina
Il volto come destino
Non è un caso che il libro ruoti attorno alla faccia. Il volto è il nostro destino sociale: ciò con cui paghiamo e veniamo pagati. Il protagonista, privato del proprio, vive il paradosso di ogni trauma: essere e non essere più sé stessi. Ogni ritratto di Sussex, ogni lembo di pelle innestato, ogni gesto di Orlova e Forti non fa che ripetere la domanda: chi sono, se non posso più assomigliarmi?
Il male come promessa
C’è un male “caldo” (l’incendio) e un male “freddo” (il calcolo, l’uso dell’altro). Maurensig sembra dire che il secondo è il più devastante: il male che promette guarigioni, che parla la lingua del progresso o della consolazione, e intanto fa di noi il proprio esperimento.
L’idea di resurrezione laica
Al fondo di L’uomo scarlatto c’è una domanda religiosa, ma senza catechismi: è possibile risorgere? La risposta non è consolatoria. La resurrezione — ci suggerisce il libro — non coincide col ritorno di ciò che si era, ma con la responsabilità di ciò che si diventa dopo il trauma. È un pensiero che muove molte pagine della narrativa europea del Novecento e che qui trova una formulazione scabra, quasi chirurgica.
Dopo la scomparsa di Maurensig
La stampa italiana ha ricordato uno scrittore appartato e rigoroso, “maestro di strutture e atmosfere”, capace di dare alla narrativa popolare un’ossatura morale. Rileggere L’uomo scarlatto oggi significa tornare a una letteratura della responsabilità in tempi che chiedono costantemente di reinventare noi stessi — il lavoro, la pelle sociale, i volti sui social — e di farlo senza perdere il senso. Significa anche rientrare in una lingua che non si lascia trascinare dall’enfasi, e proprio per questo colpisce più a fondo.
Il rosso che non se ne va
Ci sono libri che dicono tutto con una scena. In L’uomo scarlatto quella scena è il ritorno davanti allo specchio — o davanti al foglio di Sussex — dove l’io bruciato prova a riconoscersi. Lì Maurensig concentra la sua poetica: lo sguardo come prova morale, l’arte come atto pericoloso, la scienza come luogo ambivalente, il destino come figura che si staglia tra luce e buio in fondo a un corridoio. Lo scarlatto resta, come restano le cicatrici: non si tratta di rimuoverle, ma di imparare la loro grammatica.