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Lorenzo Pavolini, ”I festival letterari sono per noi scrittori occasioni di incontro e confronto”

''La memoria è un valore assoluto'', così dichiara Lorenzo Pavolini, da noi intervistato in occasione del Cortona Mix Festival, sull'importanza di ricordare anche chi ha avuto ruoli da protagonista in capitoli bui della nostra storia. Alla fine dell'articolo si può leggere un estratto del suo ''Accanto alla tigre''...
L’autore è stato ospite al Cortona Mix Festival con il libro “Accanto alla tigre”, in cui racconta di suo nonno Alessandro Pavolini, famoso ministro del fascismo. Lorenzo Pavolini ha dialogato con Paolo Di Paolo, che con “Mandami tanta vita” ha scritto un romanzo incentrato su quegli stessi anni 
MILANO – “La memoria è un valore assoluto”, così dichiara Lorenzo Pavolini, da noi intervistato in occasione del Cortona Mix Festival, sull’importanza di ricordare anche chi ha avuto ruoli da protagonista in capitoli bui della nostra storia. Mentre Paolo Di Paolo, ospite insieme a lui alla rassegna, nel libro “Mandami tanta vita” riscopre la figura dell’antifascista Piero Gobetti, in “Accanto alla tigre”, libro del 2010 di Pavolini, finalista al Premio Strega di quell’anno, l’autore ricostruisce la sua storia famigliare fatta di reticenze, conflitti e timori, raccontando l’eredità pesante del suo cognome. È lo stesso cognome, infatti, del nonno paterno Alessandro, ministro del Fascismo che costituì le sanguinose Brigate Nere e si rese autore di alcune delle più efferate azioni contro partigiani e semplici civili. 
Com’è arrivata la coraggiosa decisione di scrivere questo libro?
Due fattori mi hanno spinto. In primo luogo le richieste degli altri – può sembrare una ragione banale, ma le domande degli altri lavorano dentro di noi nel tempo. Portando il cognome Pavolini, mi è capitato molto spesso, crescendo, di essere ricollegato alla figura di mio nonno, e la curiosità altrui ha fatto sì che ponessi a me stesso degli interrogativi, sembrava quasi mi suggerisse che il solo fatto di essere nipote di qualcuno mi avvicinasse a verità o chiarimenti non accessibili ad altri. L’altra circostanza che mi ha spinto a scrivere il libro è che a un certo punto mi sono reso conto di avere la stessa età che aveva mio nonno quando venne fucilato. Nel frattempo inoltre ero diventato anche io padre, e ho iniziato a chiedermi come dovesse essere stato per mio padre crescere senza mio nonno, o comunque con un genitore che era stato fucilato. Tutte queste domande mi hanno portato a cercare delle risposte nella scrittura.
Rielaborare attraverso la scrittura il suo passato l’ha aiutata ad accettarlo, è stato un modo per pacificarsi con quel trauma vissuto nell’infanzia quando scoprì l’identità di suo nonno?
Non credo di aver subito un vero e proprio trauma. Sicuramente ho sentito il trauma che ha subito mio padre nell’aver perso un genitore da bambino, nel non aver potuto, da giovane, rivolgere un certo tipo di pensiero a suo padre, che nella storia della nazione non è stato una figura positiva. Scrivere ha senz’altro un effetto terapeutico: per me è stato soprattutto un modo per confrontarmi con mio padre, per rivolgergli domande che non ero mai riuscito a fargli. Il libro avrebbe dovuto intitolarsi “Il libro della reticenza”. La memoria dolorosa di un nonno morto come partigiano si accompagna infatti a un certo tipo di racconto, al ricordo di un uomo che si è sacrificato per il bene di molti. Il racconto di qualcuno che partecipato alla guerra dalla parte opposta, invece, non è un racconto che si fa facilmente, né nella comunità né all’interno della famiglia, e questo crea reticenza, l’abitudine a non fare troppe domande. Ho lavorato su questo con la scrittura, il libro è stato come una lettera che ho scritto a mio padre per indagare questioni taciute, e nell’ultimo capitolo ho raccontato anche quelle che sono state le sue reazioni.  
Qual è per lei il valore della memoria, anche di capitoli oscuri della propria storia? 
È un valore assoluto. Non esiste una memoria migliore di un’altra: esiste una gerarchia di valore nei fatti, nella Storia, ma non nella memoria. Il ricordo di qualcuno che, come mio nonno, è stato protagonista di malefatte – la creazione delle Brigate Nere, l’organizzazione dei cecchini a Firenze durante la ritirata finale – o che comunque ha incarnato ruoli negativi di fronte alla comunità crea imbarazzo, ma resta in sé un valore.
Cosa pensa di manifestazioni come il Cortona Mix Festival? Cosa possono dare occasioni come questa a uno scrittore e, dall’altro lato, ai cittadini?
Il fiorire di numerosi festival letterari in città piccole e grandi ha dimostrato che per i cittadini queste manifestazioni sono molto importanti. Ci sono generazioni di giovani che crescono partecipando all’organizzazione di questi festival da volontari: di solito è un modo per fare esperienza della città, dell’accoglienza degli altri nella propria città, per capire come gli altri vedano la città in cui si abita. È un’esperienza capace di fondare, o rifondare, il sentimento di far parte di una comunità. Penso al piccolo festival di poesia di Seneghe o al festival di Gavoi, in Sardegna, penso a Mantova, a Cuneo e a tantissime altre manifestazioni in Italia.
Per noi scrittori hanno un po’ lo stesso significato. Il nostro è un lavoro un po’ solitario. Le riviste letterarie, che erano il luogo per stare insieme degli scrittori, ormai sono sfumate come luogo fisico e sono diventate per lo più virtuali, vivono su internet. Questi festival sono occasioni di incontro. Sia io sia Paolo Di Paolo, protagonista insieme a me dell’incontro a Cortona, facciamo parte della redazione di “Nuovi argomenti”. Eppure per quella rivista ci vediamo una volta ogni due mesi circa, in mezzo a tante altre persone: non abbiamo mai modo di parlare. Il Cortona Mix Festival è stato l’occasione per confrontarci davvero sui nostri reciproci lavori. 
5 agosto 2013
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