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Lorenzo Iervolino, ”Per essere popolari come il calcio, i libri dovrebbero parlare alla gente comune”

L'icona numero uno del calciatore nel quale la gente si riconosce, non ha vinto un mondiale ma ha partecipato a un movimento che ha forgiato una nazione, lโ€™opposizione al regime militare...

Lo scrittore e componente della direzione artistica del “Flep!” ci parla del suo libro dedicato ad un mito del calcio brasiliano come Sócrates

MILANO – L’icona numero uno del calciatore nel quale la gente si riconosce, non ha vinto un mondiale ma ha partecipato a un movimento che ha forgiato una nazione, l’opposizione al regime militare. Poi, finita la carriera non ha smesso di comunicare con la gente, la sua gente, e si è reso partecipe di tante altre azioni politiche. E’ questo Sócrates Brasileiro Sampaio de Souza Vieira de Oliveira, meglio noto come Sócrates, il calciatore brasiliano scomparso nel 2011 a cui lo scrittore e componente della direzione artistica del “Flep!” Lorenzo Iervolino ha dedicato il libro “Un giorno triste così felice”. Un’opera frutto di un anno di ricerca, scrittura e soprattutto viaggi che hanno permesso all’autore di conoscere gli amici più vicini a Sócrates, i suoi ex compagni di squadra, i familiari, chi lo ha conosciuto da giovane, raccogliendo tante storie, alcune molto divertenti altre commoventi; del resto il titolo parla proprio di questo elemento ricorrente nella sua vita: la capacità di far convivere felicità e tristezza, o più correttamente, di saper gioire giorno per giorno, sapendo che ogni gioia è una conquista, all’interno delle difficoltà dell’esistere umano. L’autore ci spiega anche di cosa la letteratura avrebbe bisogno per diventare popolare come il calcio: minore intermediazione, ottimi interpreti, abbattimento delle barriere con i propri lettori.

Perché ha deciso di scrivere un libro sulla figura del calciatore Sócrates?

Nel maggio di due anni fa stavo lavorando a un bel progetto radiofonico su Radio Kairos 105.8, un’emittente di Bologna,  un format di 30 minuti che raccontasse episodi storici di resistenza non molto noti oppure presi da angolazioni particolari. Con Massimiliano Di Mino, coautore del programma e anche lui parte del gruppo di Terranullius, abbiamo selezionato alcune storie tra cui quella della Democrazia corinthiana, ovvero l’unica esperienza di autogestione nel calcio (bisognerebbe dire di autogoverno, per le dimensioni che riuscì a raggiungere), di cui Sócrates fu uno degli artefici. Siamo nei primi anni ottanta e in Brasile c’era ancora la dittatura militare, e un gruppo di venticinque calciatori portava avanti la gestione di un club attraverso un’assemblea democratica che era stata impiantata nello spogliatoio, o a centro campo a fine degli allenamenti. Insomma, mi resi subito conto che in 30 minuti non avrei potuto raccontare che un singolo episodio di una vita che invece – studiando e approfondendo – mi pareva un’autentica sceneggiatura, passionale e appassionata.

Cosa ha di particolare la figura di questo calciatore brasiliano?
Quel che mi ha conquistato di Sócrates è stato che avrebbe potuto semplicemente limitarsi a fare il calciatore, aveva l’estro e l’intelligenza per fare semplicemente un’ottima carriera, e invece lui si sentiva prima di tutto un cittadino brasiliano, un uomo con un’idea politica del mondo ben precisa, e questa è sempre stata la sua priorità. Oggi tutti ne parlano in maniera lusinghiera perché è morto, ma questo atteggiamento lo ha portato continuamente a scontri, a volte anche molto duri. Ma il suo prendere sempre posizione in maniera precisa e inequivocabile mi ha affascinato e mi ha spinto anche a delle follie, come prendere e partire alla ricerca dei suoi amici in Brasile o arrampicarmi di notte sulla collina di Grassina per andare a vedere la sua casa del periodo trascorso a Firenze.

Cosa ha rappresentato questo calciatore brasiliano, dal punto di vista non solo calcistico?

Come già accennavo prima, per il popolo brasiliano è forse l’icona numero uno del calciatore nel quale la gente si riconosce, proprio perché Sócrates (che non ha vinto nessun titolo mondiale, benché fosse stato il capitano del miglior Brasile di tutti i tempi, quello dell’82) ha partecipato a un movimento che ha forgiato una nazione, l’opposizione al regime militare. Poi, finita la carriera non ha smesso di comunicare con la gente, la sua gente, e si è reso partecipe di tante altre azioni politiche.
Ma ha anche fatto molto per l’arte, per i musicisti, creando iniziative e luoghi dove questi si potessero esprimere (lui era innamorato della musica brasiliana, e i grandi musicisti brasiliani erano tutti suoi cari amici). E poi non scordiamoci che era medico, anche se la professione l’ha praticata con discontinuità, ma è stata una scelta di vita che ha sempre rivendicato: finché non si laureò, a 23 anni, giocava nel Botafogo di Ribeirão Preto (squadra paulista che militava anche anella serie A del Brasileirão, il campionato nazionale), andava solo alle partite, non si allenava mai perché doveva studiare. La società dovette accettare questa sua posizione, perché fin da giovane era già fortissimo, anche se appunto, non si allenava mai.

Manca un mese all’inizio dei mondiali brasiliani. Qual era il punto di vista di Sócrates in merito a questo importante appuntamento?

Nonostante Sócrates ci abbia lasciati nel 2011, al momento dell’assegnazione dei mondiali al Brasile, nel 2007, anticipò tutti i problemi e le discriminazioni che sarebbero arrivati se si fosse affermata una politica di speculazione, se i fondi sarebbero andati solo alla costruzione di stadi (spesso inutili), strade, nuovi quartieri, invece che a beneficio della collettività. E questa sua visione sembra molto vicina a quel che sta accadendo in Brasile. Inoltre aveva preparato una riforma dello sport spostando tutti gli investimenti di strutture e personale professionale all’interno delle scuole, così da “costringere” ogni aspirante atleta a studiare fino ai diciotto anni. La riforma non passò e questo fu anche il motivo per cui lui politicamente si allontanò da Lula, col quale era e rimase grande amico, ma con qualche divergenza.

Quale aneddoto all’interno del libro è significativo della figura di Sócrates?

Qui mi trova in difficoltà, nel senso che il libro è un mondo di aneddoti Uno però che penso possa riassumere il suo atteggiamento nei confronti della vita, delle persone e soprattutto dei suoi connazionali è stato negli ultimi mesi di vita, quando si rifiutò di passare davanti a chi come lui attendeva un trapianto di fegato; avrebbe potuto farlo, avrebbe solo dovuto dire di sì, e invece disse “aspetterò il mio turno”. Così gli fissarono il trapianto per febbraio del 2012, ma non ci arrivò mai.

Quanto è diverso il calcio dei suoi anni, rispetto a quello odierno?

Eh, qua rischiamo di dover scrivere un altro libro!
Circoscrivendo il discorso, direi che bisogna intanto fare una distinzione “territoriale”: il calcio brasiliano di allora, per gestione e per tipologia di gioco, era ancora simile al calcio europeo degli anni Sessanta e primi Settanta, forse l’ultimo “calcio romantico” e autentico. Per intenderci era un calcio senza procuratori, un calcio nel quale gli atleti si battevano molto di più per i propri diritti e poi in campo giocavano senza nessuna logica di mercato, nessun interesse, ma perché quello sport prima ancora di essere il loro lavoro era la loro passione e la passione dei loro tifosi.
Rispetto al calcio di oggi, quello che Sócrates meno sopportava era che dai campionati del mondo del ’98 e del 2002, la Seleção – secondo lui – aveva smesso di rappresentare il calcio brasiliano, l’anima di una nazione, uno dei simboli di maggiore identificazione nazionale, ma era diventato il luogo strategico del mercato dove i calciatori si impreziosivano per poi essere venduti alle squadre europee. Quindi una nazionale piena di giocatori che militano in Europa e che giocano all’europea, e non più il gruppo di migliori calciatori brasiliani. Questo negli ultimi due anni è leggermente cambiato, in vista dei mondiali 2014 che il Brasile giocherà in casa, ma dalle logiche di mercato è difficile tornare indietro.

Cosa pensava Sócrates del calcio attuale?
Rispetto ad oggi c’è un’altra cosa interessante pensata da Sócrates, anzi anche teorizzata, dato che si sarebbe voluto specializzare in management sportivo con una tesi dedicata all’argomento: e cioè inaugurare il calcio a 9. Secondo lui, rispetto al passato, i calciatori corrono più del triplo dei chilometri, e non c’è calciatore che termini la carriera senza un grave infortunio. Gli spazi per esibire le doti tecniche dei giocatori sono diventati minuscoli, e la forza fisica è diventata molto più importante dell’abilità e dell’improvvisazione. Quindi, diceva, bisogna sistematizzare un gioco senza due giocatori, ma con le stesse dimensioni del campo. Cambierebbe tutto e lo spettacolo tornerebbe a farla da padrone. Pensava che alla lunga sarebbe potuto diventare uno sport olimpico. Di queste idee ne aveva pieni gli scaffali della mente, una mente che non si fermava un istante.

Cosa occorrerebbe fare per rendere la lettura in Italia così popolare come lo è il calcio?

Per fortuna non spetta a me risolvere la questione! Forse si dovrebbe distribuire gratuitamente LSD come si faceva con il chinino anti malaria a inizio Novecento.
Scherzi a parte, posso dire che – pensando anche a quanto accaduto con la Democrazia corinthiana – il calcio ha un linguaggio diretto: quel che avviene sul campo è immediatamente comprensibile da chi guarda, a prescindere dalla preparazione scolastica che uno ha. Il gesto di un giocatore arriva direttamente al cuore o ai nervi di uno spettatore che – usando la sua domanda – potremmo chiamare il lettore.
Forse la letteratura avrebbe bisogno di una minore intermediazione, di ottimi interpreti, di abbattere le barriere con i propri lettori, senza far sentire la gente inadeguata: potrebbe ad esempio smettere di rivolgersi solo a gente iper-istruita e non proporre storie popolate unicamente da avvocati, medici, detective, nobili, aristocratici, gente ricca che cambia psicologo ogni fine settimana. Questo potrebbe essere un primo sforzo: riaprire la letteratura anche alla classe popolare che la storia, e di conseguenza la letteratura che della storia si disseta, l’ha sempre vissuta in prima linea.
Poi bisognerebbe anche saper intercettare i lettori nel loro mondo: i ragazzini ad esempio che con grande facilità arrivano a guardarsi una partita di calcio, non arrivano con la stessa facilità a una storia (non per forza un libro), a una vicenda appassionante: ecco, credo che la micro letteratura che noi dalle pagine di Terranullius.it abbiamo iniziato a sviluppare (non per primi, e non i soli, ma ci siamo), può andare in questa direzione: micro romanzi che possano essere letti dagli smartphone, che possano essere multimediali e che arrivino a tutti. Poi, un’altra modalità che stiamo tornando a sperimentare è abbattere i confini tra i generi, e rivalutare molto l’oralità, quindi riportare le storie nei teatri, nelle strade, nei centri sociali: avere un contatto a tu per tu, vivo, tra lettori e storie.
Ma, al di là di questi discorsi, in definitiva, la questione credo sia una: la letteratura è il luogo dove si è liberi di immaginare, di perdersi, di sapere, e di saper inventare. Quindi se c’è tanta regressione nel numero dei lettori non è solo dovuto ai meccanismi del sistema-editoria, ma anche a società prevalentemente consumistiche che per motivi diversi, preferiscono diminuire (o far diminuire) il desiderio e il bisogno di immaginare.

18 maggio 2014
 
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